Come molti lettori sanno, è uscito da qualche settimana il volume di Claudio Bezzi Codice Giallo: uscire dal Novecento per battere Salvini. Il testo si presenta come pamphlet; breve, diretto e molto chiaro negli obiettivi esplicitamente politici. Si tratta di una sorta di spin off di Hic Rhodus, si inserisce nel medesimo solco di impegno civico e politico, e speriamo che molti di voi lo acquistino, lo leggano e lo diffondano. L’amico Gianluca Amato, dopo la lettura, ne ha tratto una riflessione che ci ha proposto e che noi volentieri pubblichiamo.
La redazione
E tu, ci credi alla magia?
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda, gli metto in mano un dizionario. A seconda del contesto, a volte la tentazione è di recapitarglielo tra le tempie, ma di solito gli finisce tra le mani.
Le parole magiche esistono, e stanno tutte lì dentro: tra abaco e zuzzurellone ce ne sono abbastanza per scatenare guerre, per rendere possibili cose che prima erano impossibili, per dare forma, valore e colore alla realtà.
Aria tra i denti, modulazioni viscose di lingue, flatus vocis, sembrerebbe essere tutto qui: eppure a volte una sola parola comprende ragnatele di concetti che si aggrappano alle cose e le rendono visibili, esattamente come la luce: non crea niente, la rende solo processabile ai nostri occhi.

La faccio breve con la suspance e la dico, la parola magica: prepolitica.
E’ una parola più antica di buona parte dei termini che la frettolosità del linguaggio giornalistico ha infuso nel dibattito pubblico: eppure è rara.
E’ una parola relativa, di confronto: quel pre- indica una distanza rispetto alla chiave del termine; prepolitica è la landa infinita che sta prima e dopo quel ristrettissimo contesto che è la politica: quella particolare condizione dell’essere in cui gli umani che condividono uno stesso ambiente fanno ‘scorrere’ i conflitti utilizzando gli strumenti delle parole, e non quelli delle armi.
A destra e a sinistra (non solo in senso parlamentare) dello spazio politico, esiste una terra di nessuno, in cui non ci sono regole, non ci sono impedimenti, ma c’è solo tensione emotiva di vario segno: è la terra delle chiacchiere da bar, degli sfoghi su Facebook, della reattività ingenua su Twitter, del detto-fatto, del “che ci vuole”, del “sono tutti uguali”.
La prepolitica non è “un certo tipo di politica”, non è populismo, non è antipolitica, non è apolitica: ma si camuffa sotto queste forme, a seconda della persona e del contesto, rendendo più difficile smascherare gli imbrogli e i sofismi da talkshow.
Riconoscerla, significa far cadere i bastioni di alibi dietro cui gli urlatori da social network si nascondono e fermentano. “Respingimenti in mare”, giusto per fare un esempio stupido, detto da chi ha l’esperienza in mare di un traghetto Reggio Calabria-Messina, non è “un certo tipo di politica”, ma è prepolitica, è parlare senza sapere di cosa, né di come, né di quando, né di perché.
Quello che oggi chiamiamo populismo, anticamera di regimi fondati sul “pensiero omologato” si nutre di prepolitica: da lì trova spinte, motivazioni, tendenze, legittimazione.
Ecco perché Claudio Bezzi, nonostante a prima vista possa sembrare strano per chi è abituato a un ruolo “educativo”(ahimé) della sinistra, mette dei limiti a cosa possa e cosa non possa essere affrontato nel dibattito pubblico: non tutti sono titolati per dire tutto, in ogni luogo; e non sempre vale la pena di perderci il fegato e il cervello per provare a dimostrare con fatti e numeri (o, più semplicemente, ragionamenti) che questa o quella idea da bar non è applicabile in nessun contesto civilizzato di questo universo.
Chi abita la landa prepolitica, allora, non va considerato come un avversario da battere, perché un avversario da battere implica un gioco che abbia regole condivise (sulle strategie non mi esprimo, è ancora presto), implica un’azione a turni, una dialettica, o anche solo il semplice stare seduti nello stesso momento senza urlare; il prepolitico va visto come quello un po’ scemo che guarda le carte da dietro ai quattro che al bar stanno giocando a briscola, gridandogli di buttare il tre per fare scopa con il tre sul tavolo.
Il problema non sono gli avversari politici (non sono mai gli avversari politici: una buona sinistra ha bisogno di una buona destra per fare qualcosa di buono, e viceversa, così come ogni gioco ha bisogno di qualcuno che giochi dall’altra parte) ma è il fatto che al gioco vogliono giocare improvvisamente uno, dieci, cento, mille che non hanno mai giocato, non sanno giocare, non vogliono rispettare le regole e – diocenescampi – vogliono riscrivere le regole.
La prepolitica reagisce agli istinti, non propone soluzioni ai problemi ma sfoghi alle emozioni; non cerca confronti ma scontri, e con l’unico scopo di guadagnare terreno per esercitare potere.
Questa è la vera diversità dei Salvini e dei Di Maio: sono giocatori del tutto e in tutto POLITICI, che però parlano la lingua ammiccante della prepolitica; giocano secondo le regole (almeno per adesso) flettendole sempre di più per divaricare i confini di quello spazio stretto dove non c’è modo di far entrare le urla e gli schiamazzi di quelli dietro di loro.
Poverini, non deve essere facile da destra e da sinistra avere nelle orecchie quelli un po’ scemi che gli dicono di calare il tre per fare scopa mentre loro sono costretti a giocare ancora a briscola.
Ma c’è da stare attenti: seduti a un tavolo da bar, di solito, bastano tre persone su quattro, per scegliere di cambiare gioco.
Questo articolo è stato scritto per Hic Rhodus da Gianluca Amato. Ghostwriter. Scrive e legge perché non sa far di conto.