Il teatrino di uno spot commemorativo porta alla luce l’insofferenza per il concetto di “Difesa”.
Fra le tante polemiche che imperversano in questi giorni un posto minore se lo guadagna la comunicazione istituzionale per il IV novembre, anniversario della Vittoria sull’Austria-Ungheria (su questo punto tornerò in chiusura) nella 1^ Guerra Mondiale, Festa dell’Unità Nazionale … e delle Forze Armate.
Cosa sta succedendo? Succede che il Ministero della Difesa, in occasione della ricorrenza, appronta un filmato promozionale che mostra aerei in decollo su allarme, soldati in azione di combattimento, il cacciatorpediniere “Durand de la Penne” in navigazione in un mare in tempesta, carabinieri in azione antiterrorismo.
Soldati che sparano, vengono feriti, coprono i corpi dei caduti tra macerie, stringono a sé un bambino, vanno avanti nonostante tutto. Il tutto, mentre una voce narrante fuori campo recita i versi di una poesia molto diffusa e molto amata nell’ambiente militare, che inizia con queste parole “Io sono stato quello che gli altri non volevano essere, Io sono andato dove gli altri non volevano andare, io ho portato a termine quello che gli altri non volevano fare…” (fig. 1)

Il filmato però viene giudicato troppo guerresco, fa sussultare parte dell’esecutivo, viene bocciato e sostituito con un altro, in linea con il manifesto ufficiale (fig. 2), questo sì con il via libera dall’alto, dove si gioca con le virgole, le nostre Forze Armate diventano «le nostre forze» e basta, sono armate non di pistole, fucili e missili ma «di orgoglio e umanità» e in cui si susseguono soldati dei due sessi e civili che pronunciano dichiarazioni rassicuranti, pacifiche, anodine ed inoffensive che evitano accuratamente ogni riferimento a operazioni e combattimento.
La decisione però non piace a soldati, marinai, avieri e carabinieri che, stavolta, non si limitano al mugugno ma si scatenano sui social con commenti sarcastici ben rappresentati da questo meme (fig. 3) apparso su Facebook. A oggi (31 ottobre) pare che il Governo abbia fatto marcia indietro e abbia acconsentito a diffondere una versione leggermente “alleggerita” del primo filmato. Vedremo.

Al di là del modo di agire di un Governo che sembra sempre più decidere non sulla base di valutazioni politiche e tecniche ma degli umori della “base” (il che non è fare politica, né tantomeno governare, ma se va bene per la TAP figuriamoci per una celebrazione), questa vicenda dà lo spunto per alcune considerazioni.
La prima è che nell’Italia del 2018 le Forze Armate continuano ad essere un argomento scomodo e divisivo, un’istituzione che una buona parte degli italiani osteggia e che scarsa e superficiale attenzione riscuote dalla politica, un’istituzione che quando finisce sui giornali il più delle volte è per esser messa sotto accusa. Senz’altro l’atroce disillusione della Seconda Guerra Mondiale, la vergogna dell’8 Settembre e la guerra civile che ne seguì hanno causato il rigetto della marzialità e dei suoi miti, e quelli veri ci sono andati di mezzo insieme a quelli posticci. E anche l’operato di chi al loro interno non serve le Forze Armate, ma se ne serve per scopi personali che nulla hanno a vedere con il bene comune e con la componente idealistica necessaria a intraprendere e svolgere un mestiere che è anche missione, gioca una parte rilevante in questa disistima. Ma è anche vero che gli Anni ’70 e ’80 sono stati attraversati da una virulenta propaganda antimilitarista che ha felicemente attecchito in un Paese che Stato è assai poco, che Nazione si sente ancor meno e che sembra non aver capito che i diritti e la libertà di cui gode – e spesso abusa – sono costati un caro prezzo, e non sono garantiti. In quegli anni la Sinistra storica, con l’appoggio di buona parte della Chiesa cattolica, riuscì a regalare la Bandiera dall’estrema destra: sostenere che libertà possa andare d’accordo con ordine, che sicurezza e difesa non siano valori antidemocratici, non diciamo che non è ancora giunto il momento in cui si potrà fare a meno delle Forze Armate valeva l’immediata etichettatura come “fascista”. Una narrativa ribadita con martellante costanza in pressoché ogni ambito culturale che ha creato e saldamente radicato nella società una vera e propria pregiudiziale ideologica delle Forze Armate. E quindi Esercito, Marina e Aeronautica, pur invocati ogni qualvolta ci sia da risolvere un’esigenza non affrontata dai titolari della stessa, dalla rimozione dell’immondizia alla pubblica sicurezza, vengono visti sostanzialmente quali un ammortizzatore sociale per falliti e sono per definizione scassati e inefficienti (però molto italianamente il prezzo dell’efficienza in termini di aree addestrative, di fondi per l’addestramento, per il mantenimento e per l’ammodernamento non si vuole pagarlo: che if you pay peanuts, you will get monkeys è considerazione estranea all’italico sentire comune), e non si sa bene cosa farne. E passi il contribuente medio, ma tale confusione di idee si riscontra, salvo rare eccezioni, anche fra i politici, sempre pronti a schierare “i militari”, ma altrettanto restii a decidere come impiegarli. In questo mainstream va a collocarsi il “Vade retro, Satana!” della Presidenza del Consiglio al primo spot.
Insomma, e questa è la seconda considerazione, l’Italia ha difficoltà, quasi si vergogna di dire cosa facciano i suoi soldati. Rifiuta di accettare l’idea che le Forze Armate sono organismi concepiti ed organizzati per condurre azioni di combattimento. Delle quattro missioni interforze loro assegnate (QUI, a pag. 429 l’affiancarsi a Protezione Civile e Forze di Polizia per fornire loro concorso è l’ultima in ordine di priorità. Che sia una cosa che organizzazione, addestramento e equipaggiamenti le mettono in grado di efficacemente è un dato di fatto, ma non è il loro mestiere (e continuo a non capire come mai 331.000 fra poliziotti, carabinieri, finanzieri, agenti di custodia eccetera non bastino mai e ci sia sempre bisogno del supporto dei 95,000 uomini e donne dell’Esercito, ma è un mio limite). La retorica delle missioni rigorosamente di pace e la narrativa imperniata sui migliori peacekeepers del mondo, sul “gran cuore degli italiani”, sulle donazioni strappacuore di zainetti e quaderni e matite colorate sorvola sul fatto che per tener buone bande e fazioni devi far capire loro che, anche se non arrivi da conquistatore, non hai nemmeno paura di menare le mani e che lo sai fare pure bene: e oltre a dirglielo, a volte serve anche la dimostrazione pratica, anche se far sorridere una famiglia con un regalo dà senz’altro più gratificazione. Con buona pace della dilagante retorica all’incontrario, quella che presenta tutti i nostri caduti come vittime ignare di proditori e vili agguati, senza rendersi conto (forse) che così li si fa passare per sprovveduti e se ne sminuisce il sacrificio. È il loro mestiere, è stato il mio per quasi 40 anni, e nel compierlo non vi è nulla di intrinsecamente eroico. È dura da dire, ma in sé e per sé non basta rimanere vittima di una mina, o del fuoco di un cecchino, per essere degli eroi. Però, a chi dice che i caduti sono delle vittime del lavoro come tante altre, vorrei far notare che sull’impalcatura di un cantiere, o in fonderia, non c’è qualcuno che voglia causare un incidente, che voglia far cadere di sotto un muratore, che voglia che la canaletta del materiale di fusione tracimi. Non è un gioco, i posti dove il Governo, da noi eletto, manda i nostri soldati sono in genere pericolosi. Da questo punto di vista, lo spot “guerresco” rende in parte ragione ai nostri soldati e segnare un’inversione di tendenza.
Ma (terza considerazione) con quale effetto? Una mia conoscente dopo averlo visto in anteprima lo ha giudicato “terrificante”. Non le dò torto: è uno choc sentirsi dire che non solo “gli americani”, ma anche i nostri soldati fanno, con normalità, cose che tanto normali poi non sono; che la normalità è uscire per svolgere un compito rischioso in un ambiente ostile, dopo avere adottato tutte le misure di sicurezza del caso sperando di aver previsto, per quanto possibile, tutte le contromisure per quel che potrebbe andare storto; che non è un gioco; che il rischio di tornare con i piedi in avanti va messo in conto, anche se lo si esorcizza e non ci si pensa (anche questo dovrebbe dire qualcosa a quelli che sostengono che questo è un mestiere come un altro che si fa solo per i soldi, ma questa è un’altra faccenda).
E questo mi porta alla mia considerazione conclusiva: ambedue gli spot trascurano la più semplice e fondamentale delle domande, vale a dire “PERCHÉ?”. Perché le Forze Armate, perché le armi, perché lo fanno? Uno semplicemente sorvola sulla questione, non sia mai che si incrini il convincimento che le Forze Armate sono una Protezione Civile impegnata a distribuire caramelle e farsi pagare profumatamente per far qualcosa che altri potrebbero fare e forse meglio. Non importa se così facendo sembra volerne negarne il coraggio, la professionalità, l’impegno. L’altro, che alla fine probabilmente vedremo, sembra dimenticare che non siamo in Gran Bretagna o negli USA. È una questione di non poco conto: se fai un video per raccontare il ruolo del militare, devi raccontarlo per intero, cioè devi anche far capire il perché un militare fa questa scelta, che poi porta a quelle cose. Perché scegliere di fare tutte quelle “cose brutte”? Perché l’opinione pubblica, il cittadino di pace, dovrebbe automaticamente capire l’orgoglio di fare cose “che nessuno vuole fare”, come sparare ad altri e soccorrere morti in guerra, quando il nostro Paese non è in guerra? Perché guardando quelle immagini non dovrebbe chiedersi perché dovrebbe celebrare dei Rambo guerrafondai?
Provo a dirlo io.
Perché le missioni di imposizione e mantenimento della pace si sviluppano a partire da un preesistente e spesso perdurante stato di guerra.
Perché se vuoi lasciare quel posto almeno un po’ migliore di come lo hai trovato dovrai agire di conseguenza, e quando hai a che fare con fazioni che si sono entusiasticamente scannate per anni se non decenni le conseguenze possono essere anche quelle “brutte cose”.
Perché la scala su cui si sviluppano e le modalità con cui vengono condotte le guerre odierne potranno essere cambiate rispetto ai tempi dello Sbarco in Normandia, ma la natura ultima della guerra non è cambiata, e questa natura continua a essere violenta: qualcosa si rompe e qualcuno si fa male, per quanto selettivo, limitato e chirurgico possa essere l’uso della forza. E per la pattuglia che è entrata in contatto con il nemico (pardon, con gli Insorti, che suona meglio) non vi è assolutamente nessuna differenza fra il trovarsi in Afghanistan nel 2018 o Iwo Jima nel 1945: spari, esplosioni, grida, urla, paura, orrore sono esattamente gli stessi. Si, è un mestiere che può riservare momenti terrificanti.
Perché anche se per la massa di coloro che si arruolano le Forze Armate appaiono come un’opportunità per sfuggire a realtà depresse se non degradate ciò non significa che si siano arruolati (solo) per lo stipendio: si fosse trattato solo di quello, avrebbero avuto altre possibilità. Cercano – magari in modo ancora confuso – dei valori, cercano dignità, cercano di mettersi a disposizione di chi ha bisogno, di risolvere problemi, l’orgoglio di appartenere a e di essere “qualcosa”. Non chiedono di essere osannati, ammirati, non chiedono riconoscenza: chiedono solo di poter fare il loro lavoro, e il rispetto che è dovuto a qualunque lavoro, specie se si tratta di un lavoro che si preferisce che, a farlo, sia qualcun altro al posto nostro. E perché hanno fatto la scelta più scomoda perché il nostro Paese è chiamato a volte a dover difendere, purtroppo con le armi, i propri principi e valori dalle minacce che esistono, sono reali, anche se sembrano scollegate da noi. Non vale per tutti, è vero, ma ditemi quale sia la professione che non abbia la sua dose di infingardi, di mediocri o anche di profittatori.
Perché le Forze Armate sono lo strumento di quelle che sono due delle funzioni primarie degli Stati Nazionali, cioè la Difesa e il monopolio nell’uso della Forza.
Perché ripudiare la guerra di aggressione non mette al riparo da eventuali alzate d’ingegno da parte di chi quest’obbligo non sente con la stessa intensità.
Ma chi queste cose dovrebbe dirle, il Governo, la politica, una volta di più queste cose, in quanto suscettibili di far storcere qualche naso e di dover essere affrontate da un punto di vista politico e non ideologico-demagogico (tutti mercenari o povere anime con il mutuo da pagare vs. tutti purissimi eroi, Onore!) non le dice.
Fino all’ultimo mi sono sforzato di credere che fosse possibile riscattare le fatiche, il fango, il sangue, la paura, la sofferenza affrontati in obbedienza a decisioni assunte da chi legalmente governa il Paese al quale si è giurata fedeltà con l’illusione che servissero a qualcosa, che qualcuno di quanti ci hanno mandato in giro in posti dimenticati da Dio si ricordasse che era stato lui o lei a mandarci laggiù. Brindando in silenzio ai compagni assenti, mi sono sforzato di immaginarli sereni, confortati dalla gratitudine e dalla memoria, non sconfitti dall’oblio e sacrificati ai giochi di sondaggio e consenso.
Questo ennesimo teatrino mi mostra che non è così. Se avete deciso di uscire con un filmato per una volta non stereotipato e realistico, lo avete fatto per ragioni elettorali, non perché ci credete davvero.
Potreste vergognarvi un po’, se ne siete capaci?
PS: in apertura ho scritto che sarei tornato sull’argomento “anniversario della vittoria”: come dice anche il Bollettino della Vittoria firmato da Diaz, il 4 novembre 1918 ebbe fine la guerra contro l’Austria-Ungheria. Ma l’Italia era in guerra anche con la Germania, ed aveva un Corpo d’Armata schierato in Francia, circa 25,000 uomini (fra cui Giuseppe Ungaretti, Curzio Malaparte, e Peppino Garibaldi) agli ordini del Generale Albricci. Per loro la guerra fini “all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese”, alle 11 dell’11 novembre, come per Francia e Gran Bretagna. Eccezion fatta per l’Addetto Militare in Francia di loro, delle Battaglie di Bligny e dell’Aisne, del loro ottimo comportamento, dei loro 4.375 morti e 6.359 feriti sepolti a Bligny e a Soupir nessuno mai si ricorda e nessuna cerimonia li commemora. Per la serie “la Patria riconoscente”. Ripieghiamo le bandiere, che è meglio.