Intervengo tardivamente ma non senza interessi personali sulla vicenda di Dolce e Gabbana boicottati in Cina a seguito di un clamoroso scivolone comunicativo (la vicenda è brevemente riassunta QUI). Gli interessi “personali” sono dovuti all’intensa frequentazione di sinologi che mi hanno commentato il diritto e il rovescio della notizia prima ancora che arrivasse sui quotidiani italiani; e poiché tale popolo di sinologi opera molto in relazione con la Cina, sono provvisto di una quantità di aneddoti di seconda mano che aiutano a capire cosa è successo e, soprattutto, perché.
Occorre anche premettere che Dolce e Gabbana, al cui genio creativo non posso piegarmi vista la mia insensibilità sull’argomento moda, non sono nuovi ad eccessi comunicativi con strascico polemico (per esempio sulle adozioni gay, ne parlammo a suo tempo), un atteggiamento che non si capisce se è improvvida stupidità o sottile (molto sottile) strategia di marketing. Se fosse strategia (e assai costosa) in Cina è andata maluccio. Considerate che in quel paese il web marketing funziona alla grandissima, ed essere esclusi da quel circuito, oltre che dagli store tradizionali è una botta da KO, vale un numero di miliardi che non oso neppure immaginare.
Il fatto è che è mancata (a chi? a Dolce? a Gabbana? all’art director? al web communicator? Ah, saperlo!) la conoscenza elementare di alcuni pilastri della comunicazione con la Cina. Di alcuni pilastri della storia della Cina.
La Cina è un paese estremamente nazionalista. La stragrande maggioranza dei cinesi è fierissima della sua “cinesità” e consapevole del suo crescente ruolo nel mondo. I cinesi appena appena di media borghesia, urbanizzati, soffrono all’idea di essere visti come “i poveri cinesini” che vendono paccottiglia presso le stazioni. I cinesi sono abilissimi commercianti, sono capaci di sacrifici inimmaginabili per creare e gestire il loro business, anche se si tratta solo di un piccolo negozietto di periferia e – questione importante – sono scrupolosissimi negli affari e puntualissimi nella gestione dei soldi e dei pagamenti. Dopo un secolo di sconfitte e umiliazioni (dagli odiati giapponesi, dal Kuomintang e dall’amato-odiato Mao), oggi i cinesi stanno recuperando una posizione che è sempre stata parte della loro cultura, dei miti, delle ambizioni di quel popolo.
Ciò premesso, solo un bambino può pensare che un popolo così distante e differente condivida i simboli, i cliché, il linguaggio dell’Occidente. Chiunque abbia un po’ viaggiato (non necessariamente in Cina) sa bene che i nostri motti di spirito, la nostra gestualità, i nostri doppi sensi, le nostre metafore, non sono compresi da popolazioni diverse che hanno altri motti di spirito, altre gestualità, altre metafore…
Prendete i numeri da 1 a 10 e guardate come vengono espressi, con le dita, dai cinesi:

(per i numeri espressi con le dita in altre lingue si veda QUI).
Questo vale per la quasi totalità dei gesti tipicamente italiani, che in Cina vengono equivocati e non compresi; questo è solo un esempio. Altri esempi possono riguardare i numeri, o i colori, o altro, che per motivi linguistici o tradizionali implicano una maggiore o minore accettazione nella comunicazione coi cinesi, e quindi porte aperte o decisamente chiuse nelle strategie di marketing. Un importatore cinese col quale lavorava uno dei sinologi della mia tribù, si faceva confezionare dolci e snack in maniera specificatamente studiata per attirare i consumatori cinesi, consapevole che certi colori e certe decorazioni erano repulsive, semmai a livello non consapevole.
Piccoli esempi casuali per trarne la prima fondamentale lezione: ciò che piace e diverte me, potrebbe non piacere e divertire il cinese medio. Lo spot di Dolce e Gabbana è con tutta evidenza basata su un cliché diminutivo, e può sembrarmi simpatico e ammiccante a me italiano, solo se considero zero l’opinione pubblica cinese. I cinesi hanno disprezzato per secoli gli occidentali, e se oggi corrono a copiarci lo fanno solo su questioni esteriori e secondarie, mentre resta saldo il senso della loro storia e della loro cultura. Loro non copiano gli americani per diventare come loro (come facciamo noi europei) ma perché sono naturalmente aperti e mimetici. Loro festeggiano il Natale come sagra consumistica, ma è il Capodanno cinese la loro vera festa di popolo. Loro si arrotondano gli occhi e disprezzano il fenotipo con gli occhi eccessivamente sottili, ma noi occidentali restiamo i “nasoni”.
Gli imprenditori italiani, tranne la minoranza di intelligenti, specie a sud della linea gotica, non solo non hanno alcuno strumento per capire queste basilari linee di strategia comunicativa ma, peggio, sono incredibilmente certi della loro eccezionalità, della bontà senza rivali del proprio prodotto, del fatto che se arrivano loro tutti si inchineranno al genio italico; qui veramente ne avrei di aneddoti (ripeto: di seconda mano) che vi risparmio solo per segnalare che:
- l’Italia non è stata capace di promuovere una strategia integrata nazionale di commercio con la Cina (proliferano i baracconi regionali tipo “TaleRegioneExport”, come su un cinese dovesse sapere dove sia la “TaleRegione” del piccolo staterello italiano); esempio fra miriadi: il vino di classe, in Cina, è solo francese; arrivati molto prima di noi italiani con una strategia unica, dominano il mercato, ed è difficilissimo anche solo provare a spiegare a un cinese che il vino, in Italia, può essere altrettanto buono o migliore;
- le aziende medio-piccole sono refrattarie a consorziarsi e promuovere una strategia capace di farsi riconoscere e di produrre i numeri richiesti dal mercato cinese;
- i piccoli e medi produttori italiani sono imprecisi, sbagliano ordini, pagano in ritardo; cose che irritano moltissimo i cinesi (specie la faccenda dei pagamenti) e siamo già diventati famosi, in Cina, come popolo poco affidabile.
Quello che continuiamo a chiamare “genio” italiano è perlopiù spocchia, presunzione, talento difeso ottusamente, botta di fortuna strettamente tenuta in famiglia.
Dolce e Gabbana sono totalmente parte di questa battaglia persa.