È notizia di questi giorni che la FCA ha avanzato alla Renault la proposta di studiare una fusione “alla pari”, per creare un gigante automobilistico in grado di affrontare le prossime sfide del settore da una posizione sufficientemente solida. La reazione del vertice della Renault è stata positiva, e lo stesso governo francese, tuttora il più forte azionista di Renault, ha manifestato un prudente favore per questa ipotesi; anche il CEO della Nissan, che ha un’importante alleanza con la Renault, si è dichiarato disposto a incontrare John Elkann. D’altronde, è da anni che si dice che le case automobilistiche saranno costrette a fondersi per ottenere economie di scala adeguate agli enormi investimenti necessari per sostenere l’innovazione tecnologica ormai ineludibile: auto intelligenti, sempre connesse, elettriche, in grado infine, nell’arco di relativamente pochi anni, di guidarsi da sole. Una trasformazione davanti alla quale, per non rischiare oltretutto di essere minacciate da nuovi produttori nati proprio in vista di questo sconvolgimento di un prodotto in fondo ancora piuttosto tradizionale, le case automobilistiche storiche rischiano di essere messe in seria difficoltà. Non a caso, il giorno stesso del comunicato della FCA che annunciava questa proposta, il titolo FCA a Milano ha guadagnato quasi l’8%. Tutto bene, quindi?
Non esattamente. Se tanti sono almeno apparentemente favorevoli a questa fusione, è proprio perché non tutto va bene, e quindi tutti sanno che bisogna fare qualcosa. Cominciamo però da quello che per l’industria automobilistica va bene, e che giustifica gli investimenti di cui parlavo: le vendite di automobili a livello mondiale nei prossimi anni saranno prevedibilmente sostenute, sia per l’introduzione delle nuove tecnologie, sia per le regolamentazioni che penalizzeranno sempre più le auto più vecchie e inquinanti. Le buone notizie, però, finiscono qui: anche senza considerare gli effetti della guerra sui dazi innescata dagli USA, il problema è che gli spazi di mercato in crescita sono, appunto, quelli delle auto più innovative, mentre le prospettive per le auto tradizionali, specie quelle “piccole”, sono tutt’altro che rosee. Inoltre, la necessità di abbandonare il diesel colpisce pesantemente le case europee, e questo incide pesantemente sull’industria italiana, che oltre a produrre automobili con la FCA fornisce componenti alle marche tedesche. Il 2019, insomma, si prospetta come un anno difficilissimo per l’industria automobilistica europea e in particolare italiana.
Quanto alla FCA, è cosa nota da anni che tra le grandi case è la cenerentola in fatto di auto elettriche e di ricerca sulla guida autonoma. Marchionne per anni ha fatto chiaramente capire che la FCA non aveva alcuna intenzione di battersi per un posto in prima fila tra i produttori di auto elettriche; tre anni fa, di fronte all’annuncio della Tesla Model 3, commentò: «Non vedo come sia possibile vendere quell’auto a 35.000 Euro e guadagnarci. Se la Tesla dimostra di poterci riuscire, la copieremo, ci aggiungeremo il design italiano e in 12 mesi saremo sul mercato».
Inutile dire che un’affermazione del genere non ha alcun senso: la tecnologia dietro un’auto come la Tesla Model 3 non si crea dal nulla, e infatti oggi tutti i commentatori ritengono che il principale motivo per cui FCA ricerca un partner come Renault sia recuperare lo svantaggio tecnologico accumulato sui principali concorrenti. Da parte sua, il gruppo italo-statunitense può portare in dote alcuni marchi di assoluto prestigio e un accesso privilegiato al mercato USA, dove i margini di profitto sono superiori a quelli ottenibili in Europa.
Eppure, anche le fusioni che partono “alla pari” non sono mai davvero alla pari. Non solo per la presenza dello Stato francese nell’azionariato di Renault, ma perché è ovvio che le sovrapposizioni tra FCA e Renault sono in Europa, e da qui derivano le preoccupazioni che alcuni cominciano prudentemente a manifestare, mentre altri, più drasticamente, parlano di “triste epilogo della Fiat”. Il fatto è che, se è vero che Marchionne ha compiuto un autentico miracolo trasformando un’azienda virtualmente fallita in uno dei maggiori player globali del settore, questo miracolo è stato essenzialmente finanziario, e non industriale, e la carenza di investimenti e di capitale di rischio può solo condurre a una progressiva diluizione del peso dell’antico DNA torinese all’interno di questi agglomerati di dimensione planetaria.
Inutile lagnarsi, se poi le aziende italiane, anche quelle portatrici dei marchi più prestigiosi (si veda il contemporaneo acquisto del principale produttore di Parmigiano Reggiano da parte della francese Lactalis), sono vulnerabili ad acquisizioni o, nel migliore dei casi, a fusioni in posizioni di debolezza: gli imprenditori italiani, bravissimi a ottenere incentivi e facilitazioni dallo Stato, lo sono molto meno a investire e ad aumentare la produttività. Solo come indicazione, si veda qui sotto un grafico che mostra come, pur con una tendenza in crescita, gli investimenti delle aziende private in rapporto al PIL in Italia negli ultimi dieci anni sono stati mediamente intorno alla metà di quelle francesi, e un terzo di quelle tedesche (e i PIL tedesco e francese sono più alti di quello italiano, quindi le differenze in valore assoluto sono anche maggiori).

Se in Italia, per ragioni dimensionali, di sfiducia o di opportunismo, le imprese non sono in condizione di investire quanto i loro concorrenti, non ci si può stupire se poi i concorrenti crescono di più e le acquisiscono. E anche le imprese che riescono a superare crisi importanti, come FCA, si trovano a un certo punto a dover cercare onorevoli fusioni da cui difficilmente sarà un paese come il nostro a ottenere la parte del leone, in termini di sistema. Non è colpa dell’UE, dell’Euro o della cattiva finanza internazionale; semplicemente, gli zecchini sepolti sottoterra non si moltiplicano, e un paese che investe poco, innova poco e si migliora poco (e, ripeto, nel panorama italiano non è certo FCA a costituire un cattivo esempio da questo punto di vista. Si tratta di un problema di sistema) alla fine può solo declinare.
L’immagine di apertura è tratta da un articolo del Financial Times