Vi presentiamo un libro: “Suicidio”

L’argomento di cui scriviamo oggi non è uno dei “soliti”: vogliamo segnalarvi un libro importante perché affronta con coraggio e chiarezza, fin dalla copertina, un problema difficile e di cui spesso non ci si occupa se non troppo tardi: il suicidio.

Suicidio è appunto il titolo del libro, scritto dal giornalista specializzato in moda e lifestyle Eugenio Gallavotti (nella foto di apertura) e dallo psichiatra Mario Savino, per contrastare stigmi e luoghi comuni, e presentare le ultime ricerche sulla prevenzione del suicidio. L’errore madornale, secondo gli autori? Far finta di niente. Anzi, vergognarsi di avere un familiare o un amico a rischio.
Ne parliamo appunto con uno degli autori, Eugenio Gallavotti:

Gallavotti, forse sarebbe stato più calzante un saggio sul suicidio dell’editoria di moda… Come mai un libro sul suicidio tout court?

«Ci sono passato in mezzo, quasi vent’anni fa. Il coautore del volume, Mario Savino, è lo psichiatra che, diciamo così, mi ha offerto un’altra possibilità…».

Un’autobiografia tipo “uscimmo a riveder le stelle”?

«No, per carità. Ci sono librerie piene di gente che racconta il buio, l’uscita dal tunnel… È vero: sono uno che ce l’ha fatta. Ma ho preferito utilizzare la mia “esperienza” per scrivere qualcosa di nuovo, di divulgativo, di utile per i lettori. Per fare il punto sulle ultime scoperte scientifiche – dalla genetica alla stimolazione cerebrale – che tracciano nuovi percorsi di prevenzione. Per poter finalmente invertire il trend: l’Organizzazione mondiale della sanità prevede anche per il 2020 un aumento delle vittime di suicidio; una ogni ventuno secondi e un tentativo ogni 1,5 secondi. Un fenomeno che non può più essere ignorato/rimosso. Anche perché il potenziale suicida, lasciato a sé stesso, è un pericolo anche per la società: ricorda quei piloti civili che hanno scelto i loro aerei come strumenti per togliersi la vita? Ed è un fenomeno che non può più essere ignorato/rimosso soprattutto in Italia dove la psichiatria è in grave ritardo rispetto a numerosissimi Paesi occidentali, in particolare nell’impiego delle tecnologie più efficaci»

Intende l’elettroshock?

«Anche, ma non è una parolaccia. È un’invenzione – italiana – che, se non ha vinto il Nobel, ha comunque salvato la vita a milioni di persone. Certo, la moderna stimolazione cerebrale – che ha fatto enormi passi avanti rispetto al vecchio elettroshock – è tuttora circondata da pregiudizi, mentre in realtà è insostituibile per tutti coloro che resistono ai farmaci. In Italia solo lo 0,06 per cento di pazienti a rischio suicidario viene trattato con la stimolazione cerebrale. Per esempio, negli Stati Uniti la percentuale sale al 21. C’è una bella differenza. Anche nella somministrazione dei farmaci non siamo all’avanguardia. Per esempio, è poco prescritto il litio, che in molti Paesi è considerato un eccellente stabilizzatore dell’umore».

E cos’ha scritto di nuovo, con l’aiuto del suo “Virgilio”?

«La ricerca si sta orientando sulla predisposizione. Ovvero, come recita anche la copertina del libro, “non è una cosa che può capitare a tutti”. Innanzitutto, capita solo agli umani. Agli animali no. E capita essenzialmente agli umani che, detto in estrema sintesi, non posseggono meccanismi autoprotettivi così solidi e costanti. “Suicide is genetic”, suicidi si nasce, hanno sostenuto di recente gli psichiatri dell’università dello Utah analizzando oltre 1.300 campioni di Dna e rilevando varianti genetiche nella persone suicide rispetto a chi è deceduto per altre cause. Ecco perché, per esempio, la mamma africana che vede annegare i figli nel Mediterraneo non necessariamente si unisce a loro, mentre il famoso manager di una grande squadra di calcio – che ha tutto ciò che desidera, famiglia, carriera, denaro, gratificazioni d’ogni genere – a un certo punto apre la finestra del suo ufficio e si lancia nel vuoto».

Vuol dire che esiste un “gene del suicidio”, e chi ce l’ha è condannato?

«Se le condizioni ambientali non sono favorevoli (un divorzio difficile, un crac finanziario, un qualunque stress/senso di colpa prolungato), chi è meno “protetto” può ammalarsi, per esempio di depressione. Fino a desiderare di morire, per non sopportare quell’inferno che è diventata la sua mente. Ma condannato, direi proprio di no. Se chiede aiuto a uno specialista, può ricorrere ai farmaci e alla stimolazione, fino a riprendere una vita “normale”».

La depressione è la causa principale del suicidio?

«Al di là dell’abuso di sostanze come alcol e droga, nella maggior parte dei casi il suicidio è il drammatico epilogo di una malattia psichiatrica diagnosticabile. Ovvero, il disturbo dell’umore (depressione), il disturbo d’ansia associato all’umore, il disturbo alimentare, il disturbo della personalità. C’è un tipo di depressione, il cosiddetto “stato misto”, molto pericoloso, che può scatenarsi improvviso e potente. E questo spiega alcuni episodi archiviati come “misteriosi” anche dalla stampa più blasonata (“Ma come, aveva tutto, era così brillante, pieno di interessi…”): lo “stato misto” è un tipo di depressione bipolare accompagnata da ansia/agitazione/irrequietezza/impulsività dove purtroppo la vittima ha tutta l’energia necessaria per togliersi la vita. Perché uccidersi è un gesto aggressivo/violento: chi è veramente debole, prostrato, non riesce».

I giornali a volte minimizzano, magari per non creare emulazione…

«Recenti studi hanno dimostrato che il “contagio” è scatenato soprattutto dal suicidio di un personaggio famoso, da una serie tv a tema e così via. Lì è bene essere cauti, soprattutto nel comunicare modalità, dettagli… Al contrario, la notizia del suicidio di un semplice conoscente può ridurre il rischio in chi sta progettando di togliersi la vita, genera uno shock che consente una “pausa”. È un errore pensare che la cura migliore in questi casi sia il silenzio. Stamattina mi ha chiamato una giornalista di un importante quotidiano nazionale: “Interessante il tuo pamphlet. L’ho proposto al mio capo, ma mi ha risposto che noi di questo argomento non parliamo per principio”. E invece non se ne esce se non se ne parla, se la persona a rischio non accetta/chiede di essere aiutata. Il libro è anche una denuncia contro i luoghi comuni, contro gli stigmi, contro la vergogna che alcuni provano nell’avere un familiare o un amico in quelle condizioni. Una vergogna che non ha alcun senso, che è solo un boomerang. Perché, ancora nel 2020, consideriamo il disturbo mentale come un disonore? Che differenza c’è con altre gravi malattie? O forse pensiamo che non sia una malattia?».

Chi è più a rischio di tutti?

«Chi ci ha già provato».

Eugenio Gallavotti

Eugenio Gallavotti è un professionista di lungo corso nei periodici lifestyle, è stato vicedirettore di “Elle”, direttore delle brand extension (“Elle Accessori”, “Elle Gioielli”, “Elle Bambini”, “Elle Spose”…). Insegna Comunicazione della moda all’università Iulm e al master di giornalismo della Statale di Milano. E però ha scritto un pamphlet che non c’entra niente, “Tutto quello che avremmo voluto sapere sul suicidio”, distribuito da Giunti (giuntialpunto.it) e da Amazon, provocando un certo smarrimento nel glitterato universo del fashion.