Nota: questo post fa parte di un sottotema molto di nicchia che riguarda una ricerca personale dell’autore. Una prima parte è uscita QUI.
Una ricerca sugli oggetti intorno a noi può diventare incredibilmente rivelatrice (in effetti ‘oggetti’ è più appropriato di ‘cose’, come ho spiegato nel pezzo precedente, ma per non infilarsi in gineprai terminologici lasciatemi usare qui i due termini come sinonimi). Rivelatrice di noi esseri umani, ovviamente, o meglio: dei meccanismi (Pawson) responsabili degli esiti delle nostre relazioni sociali. Tutti i rapporti economici, ovviamente, hanno alla base delle cose; l’arte è fatta di cose; e piena di cose è fatta la nostra vita quotidiana. I grandi magazzini sono stracolmi di cose; le nostre case tracimano di cose; i nostri guardaroba, la stanza dei bambini con quantità industriali di giocatoli, il cibo che buttiamo via, le due automobili a famiglia, poi tre, forse quattro, cinque televisori, otto telefonini (perché quelli vecchi mica li buttiamo), e l’obsolescenza programmata, e la moda, e l’ultimo modello di PC che sei fottuto perché i vecchi programmi non girano più e chissenefrega ricomperiamo tutto… Dall’economia, dalle relazione sociali, dai meccanismi, ci troviamo quasi subito alla nevrosi consumistica, all’oggetto come totem. Viviamo una bulimia del possesso degli oggetti della quale, mi pare, non abbiamo una grande consapevolezza.
Non so se avete visto quel gioiellino di Jarmush, I morti non muoiono; la scena finale, quando muoiono anche i due poliziotti sopraffatti dagli zombie, è raccontata attraverso il breve monologo interiore di Bob l’eremita, che osserva a distanza; ve la ripropongo, è brevissima.
Una visione chiarissima di ciò che voglio indagare col mio progetto. L’alienazione che tutti noi, nessuno escluso, viviamo in virtù della “cosificazione” del mondo.
Scontando una notevole ipersemplificazione che spero mi perdonerete (diamine, siamo su un blog, non alla Normale di Pisa!), ho riordinato le idee in questo modo (clic per ingrandire):

Ciò che ho inteso rappresentare è la trasformazione, nel tempo, del valore degli oggetti: da valore d’uso (il martello per piantare chiodi, il mestolo per girare la zuppa…) a un valore simbolico e affettivo (l’orologio di mio nonno – che non funziona più ma è il nonno) fino a uno – io sostengo – reificato, dove non conta neppure il valore simbolico e affettivo ma l’oggetto in quanto tale. Le tecnologie si prestano meravigliosamente bene a rappresentare questa reificazione: abbiamo e vogliamo telefonini sempre più “performanti” (😩) anche se le telefonate restano le medesime e se quei fantastilioni di pixel delle fotografie sono in buona parte fasulli. Il cibo è un altro splendido campo di indagine: vogliamo il goji nello yogurt anche se fino a due tre anni fa non ne conoscevamo l’esistenza e campavamo benissimo uguale. Ma potremmo dire molto anche del sesso, del corpo, e del loro mercato (nel piuttosto breve Corso Vannucci di Perugia, dove vivo, ci sono almeno 3 vetrine di intimo. O sono 4…?). E infine delle armi…
Il mondo delle cose è poi anche un mondo dei rifiuti, degli imballaggi, degli sprechi e delle stratosferiche disparità fra mondo occidentale e aree povere del pianeta. Argomenti che non tratterò nel mio progetto dove mi interessa puntare il dito sull’oggetto in sé, che da prodotto materiale con una mera funzione d’uso è diventato un nuovo dio. L’oggetto dio che scaccia la nostra umanità, la mortifica, sostituendola con dei surrogati: efficienza, velocità, colori, rumori… Gli oggetti della società contemporanea sono la rappresentazione plastica della perdita della nostra umanità.
(Foto di copertina dell’autore)