Siamo circondati da cose, o meglio (come distingue opportunamente Bodei) da oggetti.
Sospendete la lettura un momento e date un’occhiata in giro per la stanza: se vi soffermaste a enumerare e semmai catalogare tutti gli oggetti presenti, per quanto angusto e spoglio possa sembrare, a prima vista, il vostro ambiente, impieghereste molte ore, come magistralmente ha mostrato Perec. Gli oggetti (in senso lato: strumenti, vesti, ma anche cibo, animali domestici…) sono, senza eccezione alcuna, proiezioni umane, in senso antropologico: nostre protesi, proiezioni, manifestazioni, a iniziare dall’osso trasformato in clava dal primitivo nella famosa scena di 2001. Quell’osso diventa strumento, ossia un prolungamento del braccio e della sua forza, quindi diventa una proiezione del sistema di cognizioni ma, soprattutto, di valori. Quell’osso-strumento diventa molte cose (per esempio un’arma) ma soprattutto diventa un elemento significante: potere, forza, violenza, caccia, dominio… e si associa inestricabilmente al suo possessore: quell’individuo-con-lo-strumento. Inevitabile una traslazione: quell’oggetto-dell’individuo, ovvero: quell’oggetto inestricabilmente connesso a quel dato individuo, quell’oggetto-parte-di-lui, infine quell’oggetto che è lui.
Gli oggetti “parlano di noi” perché diventano, in parte, noi. Ecco perché gli oggetti sono elementi del ricordo, specie nel lutto; elementi di possesso narcisistico o addirittura feticistico (feticismo sessuale, collezionismo…). Filosofi e sociologi ci hanno da tempo mostrato la deriva di questa iniziale presentazione: dalle merci come feticcio in Marx (Il Capitale, libro I) alle merci come totem amorale (Baudrillard). In ogni caso, si percepirà, è maturata una frattura profonda da quell’osso-strumento: il valore d’uso è stato abbondantemente sostituito da valori simbolici personali prima (la teiera inglese della bisnonna, ricordo tramandato come elemento simbolico familiare) e da non-valori collettivi oggi (l’iPhone, per esempio). Parlo di non-valori provocatoriamente, alla stregua dei non luoghi che affolliamo con analoga pulsione. I valori ovviamente ci sono, e i segni, ma sono valori diventati completamente estranei all’umanità inclusa negli oggetti-strumento. Oggi gli oggetti, specialmente tecnologici (computer, smartphone, tablet…) consumano la frattura dall’umanità presentando antagonisticamente una loro struttura di valori-non-valori che induce una profonda alienazione (Galimberti).
Gli oggetti non ci appartengono più, e sempre più noi apparteniamo a loro e assimiliamo valori, significati, regole estranee alla nostra umanità e singolarità, per approdare a una post-umanità plurale, dove ‘plurale’ va inteso nella sua accezione negativa, di scotomizzazione dell’io, omologazione.
Nel ricco Occidente viviamo la crisi della bulimia degli oggetti (per lo più inutili o ridondanti rispetto al valore d’uso), del cibo (pessimo, ma mangiato in dosi eccessive), del sesso (virtuale semmai), imitandoci l’un l’altro secondo le medesime regole della produzione di massa: e sono le tecnologie recenti, Internet 2.0, i social media, a veicolare questo flusso omologante: diciamo le stesse cose e nello stesso modo, e negli stessi tempi, attori e spettatori nel medesimo tempo; seguiamo le stesse mode, vediamo la stessa produzione televisiva, mangiamo lo zenzero e il goji (ma come abbiamo mai potuto vivere senza?), scopiamo come nei film porno, nuova fonte di educazione sessuale, beviamo i drink alla moda, siamo nel mood, godiamo l’apericena, viviamo un eterno presente che non si perita di ricordare un qualsivoglia futuro, perché il futuro è sviluppo, e quindi scelta, e quindi pensiero critico, mentre il presente è sempre attuale e senza rischi e senza scelte.