Telegram sta uccidendo i giornali?

Alla vicenda Fieg vs Telegram ha già dedicato un trafiletto Bezzi giorni fa. Mi permetto di tornarci sopra perché riguarda, in ultima analisi, un tema secondo me centrale al giorno d’oggi: la proprietà intellettuale, e di riflesso l’innovazione tecnologica, il monopolio/oligopolio contrapposto alla concorrenza. Per chi fosse interessato ad una trattazione estesa di questi argomenti raccomando il libro Abolire la proprietà intellettuale, di Boldrin e Levine (la versione in lingua originale la si trova liberamente qui). Io cercherò “semplicemente” di fare una sintesi della questione, partendo dal caso in oggetto (la vicenda Telegram) per poi allargare l’orizzonte.

Quanto la “pirateria digitale” danneggia i giornali?

Il presidente della FIEG, Andrea Riffeser Monti, ha dichiarato che «In una ipotesi altamente conservativa» le perdite economiche causate dalla cosiddetta pirateria digitale sarebbero stimate in «670.000€ al giorno, circa 250 milioni l’anno».
Un dato effettivamente allarmante, verrebbe da dire.
Ma c’è un problema, a monte di tutto ciò: come viene calcolato il suddetto danno economico? L’articolo non lo spiega, ma dato che cita il numero di utenti complessivi dei canali Telegram su cui vengono diffusi i PDF dei giornali (588.000), la sensazione è che a quelle cifre ci si arrivi ipotizzando che ciascuno degli iscritti legga “a scrocco” almeno un quotidiano, ogni giorno.

In termini più semplici: si prende il prezzo di una copia di un giornale (es. 1,50€), si ipotizza che 10 persone l’abbiano letto gratis su Telegram, e si conclude che il danno ammonta a 15€.

Ora, questo metodo, per quanto intuitivo, si basa su una grossa fallacia logica: dà per scontato che chi ha letto il giornale gratis sarebbe stato disposto a comprarlo, in assenza del canale Telegram. Ma di ciò non si può avere nessuna controprova: al contrario, è assai probabile che molte delle persone che fanno ricorso ai canali Telegram non avrebbero comunque comprato una copia del giornale, e dunque è scorretto computare 1,50€ di danno economico. Perché le persone si comportano così? Sono tutti ladri e approfittatori? No. Semplicemente, ciascuno di noi attribuisce un valore economico ai beni, lo confronta col prezzo imposto dal venditore e decide di volta in volta se questo è accettabile o meno.

Qualcuno obietterà che Telegram consente di avere gratis tutti i giornali in un colpo solo, per cui il risparmio di ciascun utente non è il prezzo di un singolo giornale, ma di tutti. Diciamo che l’obiezione è valida: ma davvero crediamo che vi siano individui, là fuori, che leggono tutti i giornali proposti da Telegram? Ancora una volta, dunque, i veri mancati acquisti sono verosimilmente molti meno di quelli stimati.

Chiudiamo anche i bar e i parrucchieri?

C’è poi una domanda che mi sorge spontanea. Ogni giorno, in Italia, centinaia di proprietari di bar (nonché barbieri e altre attività) acquistano svariate copie di giornali diversi che, nell’arco della giornata, vengono letti da decine di persone, senza ovviamente che la lettura del quotidiano venga fatta pagare in aggiunta al cappuccino o alla brioche; la FIEG ha per caso mai calcolato il danno economico provocato da tutto ciò, e chiesto la chiusura dei bar?

Nel digitale il diritto non vale: lo strano caso dell’equo compenso

Il punto è, da diversi decenni, sempre lo stesso: molti, soprattutto tra i legislatori, tendono a dare per scontato che quando si parla del mondo digitale si debbano non tanto applicare leggi diverse rispetto all’analogico, ma proprio ribaltare i princìpi su cui questo si basa.

Si pensi, ad esempio, al cosiddetto equo compenso, un “contributo imposto per avere il diritto di effettuare la copia privata delle opere protette dal diritto d’autore”. Cioè una sorta di risarcimento anticipato che chiunque acquisti un supporto (cd, DVD, USB key, HD esterno) deve pagare ai detentori del diritto d’autore perché con quei supporti potrebbe, in teoria, duplicare un contenuto e condividerlo con altri.

Siamo all’annullamento del principio secondo cui, quando acquisto un bene, la proprietà di esso passa a me; di fatto non posso disporre liberamente di un CD o di un DVD che pure ho regolarmente acquistato, perché se così fosse io potrei fare tutto ciò che voglio, con quel bene di mia proprietà, ivi compreso condividerlo gratuitamente con i miei vicini di casa. Ho sempre ritenuto valido il seguente paragone: sarebbe come se, quando acquisto un’automobile, dovessi pagare un “equo compenso” alla casa produttrice per i passaggi che potrei eventualmente decidere di dare ad altra gente.

Siamo anche all’annullamento di svariati altri princìpi giuridici, tra cui la presunzione d’innocenza fino a prova contraria e il fatto che si dovrebbe pagare per colpe commesse. Non è neanche un processo alle intenzioni, visto che dai processi si può anche uscire assolti: è proprio una condanna diretta, senza processo né diritto all’avvocato.

L’assurdità di queste leggi non viene però mediamente percepita, per il motivo cui accennavo sopra: la dimensione digitale rende tutto più sfuggente. E le lobby del copyright hanno avuto una geniale intuizione a bollare come “pirateria” la prassi di duplicare (e poi condividere) beni di proprietà legittimamente acquistati. E, si badi bene, è una intuizione che risale a ben prima del boom dell’informatica.

Le musicassette che uccisero la musica

Negli anni ‘80 la British Phonografic Industry lanciò una campagna contro la violazione di copyright con lo slogan Home taping is killing music (le registrazioni domestiche stanno uccidendo la musica). Cos’era successo? Semplice: stavano iniziando a diffondersi le musicassette, e qualcuno aveva avuto l’idea di utilizzarle per registrare la musica della radio o dei vinili, e le case discografiche furono prese dal panico all’idea di veder calare i profitti. Ergo, ricorsero a una prassi che sarebbe diventata la norma, nei decenni successivi: fare pressione sui governi affinché questi dichiarassero illegali dei comportamenti assolutamente legittimi.

La campagna fu oggetto di svariate parodie: da il cucito domestico sta uccidendo la moda al celebre lato B dell’album In God we trust dei The Dead Kennedys, che recitava Home tapins is killing record industry profits! (le registrazioni domestiche stanno uccidendo i profitti delle case discografiche).

La smaterializzazione della cultura e l’avvento del P2P (Peer to peer)

Con un balzo alto cronologico notevole saltiamo qualche passaggio e arriviamo all’era digitale, che rappresenta un’ulteriore e drammatica complicazione della vita per i lobbisti del copyright. Se infatti, nell’era analogica, produrre delle copie implicava più o meno sempre il ricorso a supporti materiali (cassette per musica e film, carta-inchiostro-fotocopiatrice per i libri), nell’era digitale il supporto materiale è svanito. Tutto è una sequenza di bytes, e chiunque può produrre copie virtualmente infinite di un’opera a un costo assai vicino allo zero, per di più senza la minima perdita di qualità.

Questo “problema” venne ingigantito dall’altro: l’avvento del peer-to-peer. Per dirla in termini iper-semplificati, in una rete P2P ogni singolo utente mette a disposizione i file che ha sul computer, e li fa scaricare ad altri utenti, per scaricare a sua volta altri file messi a disposizione da altri; non c’è un server centrale a cui tutti si collegano (quelli della mia generazione [cioè i millennial] si ricorderanno l’adolescenza passata davanti a e-Mule, il mulo elettronico che consentiva magicamente di trovare film, canzoni e ogni ben d’Iddio, a patto naturalmente di saperci “smanettare” e capire quali file erano “veri” e quali, invece, dei porno con il nome cambiato e magari qualche bel virus incorporato. Ah, bei tempi…).

Anche in questo caso, la reazione delle major fu isterica e grottesca. Questo è lo spot che molti hanno forse ancora negli occhi

Forse è il caso di spenderci due parole, su questo spot, perché non ricordo di averne mai visto un altro altrettanto intellettualmente disonesto.
L’assunto su cui si basa è che la copia e il furto siano la stessa cosa. Ma è evidente che non è così: il furto è un’operazione che porta all’illegittimo passaggio di un bene dalla vittima al ladro. Nella copia, al contrario, non ci sono vittime e carnefici: il bene viene prima moltiplicato, e in genere l’originale resta al legittimo proprietario, mentre la copia va all’altro soggetto.

Vero è che se la copia viene fatta contro la volontà del legittimo proprietario, si tratta di una violazione della libertà di quest’ultimo: ma non è certo questo il caso della “pirateria digitale” (e in particolare del P2P), dove anzi sono gli utenti che scelgono di condividere il materiale che hanno nell’hard-disk a beneficio di altri.
Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare che la copia viene fatta contro la volontà della casa discografica che ha prodotto il CD (e forse anche dell’artista). Ma qui si torna al punto discusso poco sopra: l’utente che acquista un singolo CD dovrebbe diventare proprietario di quel singolo CD, e dunque dovrebbe poterne disporre liberamente.

Ancora una volta, è la natura digitale dei beni ad alterare in modo grottesco la percezione di illeicità del file-sharing. Che altro non è che la condivisione di beni legittimamente acquistati.

Chi ha sconfitto il file-sharing?

È sotto gli occhi di tutti che, oggi, la cosiddetta pirateria digitale non è più qualcosa di cui si parli molto, pricipalmente perché non è più praticata come un tempo. Ma chi o cosa l’ha sconfitta?

Di certo non sono state le grida manzoniane dei vari Stati, né tantomeno i ridicoli spot come quello mostrato sopra. È stato semplicemente il mercato, e segnatamente l’avvento di attori che hanno portato innovazione in un settore che, fosse dipeso dalle case discografiche/editrici etc., sarebbe ancora fermo all’anno zero. È il punto cui accennava anche Bezzi nel suo trafiletto, quando dice che “basterebbe poco, copiando sistemi già utilizzati per la musica, o per i libri, da grandi piattaforme Web”. Il riferimento, immagino, è ai vari Spotify, Netflix e simili.

Il caso Spotify è esemplare.
Spotify è una piattaforma di musica in streaming che adotta la logica del freemium: si può cioè scegliere se usarla gratuitamente (avendo però alcune restrizioni) o sottoscrivere un account premium, che dà diritto alla rimozione delle restrizioni. Nel caso specifico, le restrizioni dell’utilizzo gratuito consistono nell’ascolto forzato di alcuni spot pubblicitari dopo qualche canzone, sull’impossibilità di saltare da un brano all’altro a completo piacimento (quest’ultima peraltro vale solo sui dispositivi mobili) e altro.

Ora, un sacco di gente ha sottoscritto account premium su Spotify. Eppure il file sharing sarebbe ancora più conveniente, almeno sul piano economico.
Evidentemente, molti ritengono che il servizio offerto da Spotify valga il prezzo che chiede. E di vantaggi materiali, rispetto al file sharing, in effetti ne esistono: la musica è già tutta lì, non va cercata né scaricata sull’hard disk, né tantomeno trasferita su un dispositivo tipo lettore CD o MP3 o qualsiasi altro che si usava ai tempi in cui ero un adolescente. Se a ciò si aggiungono varie altre opzioni interessanti (come la “scoperta” degli artisti simili, le playlist personalizzate etc.), ecco che siamo di fronte a un servizio che molti reputano conveniente.

Tutto il mondo editoriale è Paese: la direttiva UE e i giganti del web

Il mondo del giornalismo italiano pare dunque aver trovato un nuovo capro espiatorio da incolpare per i propri fallimenti, e chiede allo Stato di oscurare non già gli specifici canali Telegram dedicati alla diffusione dei PDF dei giornali, ma addirittura l’intero Telegram, andando così a penalizzare anche chi lo usa semplicemente come app di messaggistica e per scopi del tutto leciti.

Non si tratta di un fatto limitato all’Italia, peraltro. La deleteria direttiva sul copyright varata l’anno scorso in sede europea era anch’essa fondata sulla necessità di difendere gli editori tradizionali dai “colossi della Rete” che, a detta dei proponenti, lucravano illecitamente rubando di fatto contenuti agli editori tradizionali. Da cui l’esigenza di imporre la famosa “snippet tax”, cioè l’obbligo per chiunque voglia usare gli snippet (anteprime degli articoli) – tra cui i vari Google, Facebook etc. – di acquistare prima una licenza da parte degli editori. Un’iniziativa basata sul presupposto – completamente erroneo – che i maggiori beneficiari degli snippet siano appunto Google, Facebook etc., quando chiunque conosca un minimo il mondo del blogging e del web marketing sa che è proprio la condivisione su queste piattaforme ad aumentare il traffico sui siti web. E infatti le cose stanno andando esattamente nel modo che era stato previsto da molti, sulla base di esperienze del passato (leggi analoghe erano state approvate in alcuni Stati europei, prima di arrivare in Europa): Google non ha intenzione di pagare nessuno, e nel farlo non sta in nessun modo violando la direttiva. Semplicemente, ha cambiato policy, lasciando come opzione di default di mostrare solo il titolo, a meno che l’utente non specifichi di voler mostare anche altro.

Il problema, a mio modesto avviso, sta a monte. Il giornalismo cartaceo tradizionale è in crisi da anni, ben prima della scoperta dei canali “pirata” di Telegram; a fare concorrenza è il giornalismo online, che permette la lettura gratuita e si finanzia con la pubblicità o talvolta con donazioni spontanee.

Il mondo del giornalismo tradizionale cerca di dipingere il web come un gigantesco immondezzaio pieno solo di fake news, contrapposto invece alla presunta qualità della cara vecchia carta stampata. Non credo sia necessario ricordare ai lettori di questo blog quanto molto più complessa sia la realtà. Mi piace pensare che se i giornali tradizionali non fossero diventati essi un ricettacolo di populismo, invettive forcaiole, sensazionalismo spinto solitamente asservito ai partiti di riferimento, forse riuscirebbero a competere sul mercato. Ma il giornalismo di qualità comporta costi e fatica: molto meglio aggrapparsi alle leggi sulla proprietà intellettuale per cercare di impedire la concorrenza e blindare un monopolio.

Che poi, in fin dei conti, è la ragione per cui il copyright nacque.