La riapertura delle librerie, esempio di come non gestire la “fase 2”

In questi giorni, si discute molto di come e quando avviare la cosiddetta “Fase 2” della gestione dell’emergenza Coronavirus, dopo il lockdown che costituisce la Fase 1. Finora, a parte la costituzione di un numero non trascurabile di task force, non è stato deciso molto su come si procederà nel delicatissimo passaggio che ci attende, e che dovrebbe consentire la graduale ripresa delle attività economiche ora bloccate; e, credetemi, questa ripresa è un problema talmente complesso che io non saprei da dove cominciare.

Quello che so di sicuro è da dove non comincerei: dalle librerie. Non perché io ce l’abbia con le librerie, dove specialmente in gioventù ho trascorso innumerevoli ore; e neanche perché io consideri marginali o secondari i consumi culturali; ma perché la scelta di riaprire le librerie prima di tutte le altre attività costituisce un problema per lo stesso settore, tanto che a mio avviso rappresenta un utile caso di studio. Vediamo, innanzitutto, i contenuti del decreto del 10 aprile con cui il Presidente del Consiglio ha prolungato il lockdown con qualche eccezione, ossia ampliando le tipologie di merci che rientrano tra i generi alimentari e di prima necessità che è possibile vendere, e che appunto stavolta includono anche i libri. In ogni caso, però, chi vorrà tenere aperto il proprio esercizio commerciale dovrà «assicurare, oltre alla distanza interpersonale di un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito di sostare all’interno dei locali più del tempo necessario all’acquisto dei beni», oltre ad altre restrizioni, come ad esempio sul numero di clienti che possono trovarsi contemporaneamente all’interno. Passiamo ora ai miei commenti.

In primo luogo: riaprire le librerie non è necessario. Qui chiaramente dirò cose banali, ma inevitabili: in un paese in cui, come abbiamo visto, il 40% dei cittadini non legge neanche un libro l’anno, e circa il 20% non arriva a tre, è difficile considerare i libri un genere “di prima necessità”. Inoltre, anche chi avesse l’impellente necessità di comprare un libro ha a disposizione molte opzioni, prima fra tutte quella di comprare e-book, senza trascurare la possibilità della consegna a domicilio (anche perché le librerie, anche quelle piccole e indipendenti, si sono organizzate per consegnare libri a domicilio) e magari gli audiolibri. Insomma, davvero è difficile considerare necessario riaprire le librerie.

Ma c’è di peggio: riaprire le librerie può addirittura essere dannoso per le librerie stesse (senza considerare gli eventuali rischi per la salute). Non a caso, molte librerie non approfitteranno di questa possibilità, e a buona ragione: tenendo chiuso, almeno possono ridurre i costi, tenendo il personale in cassa integrazione, evitando di consumare elettricità, eccetera. Tenere aperto si giustificherebbe solo con un afflusso di clienti che è difficile ipotizzare, specie finché le persone non possono uscire per altri motivi. Dall’altra parte, le restrizioni che ho citato, e che possono essere limitanti per un qualsiasi esercizio commerciale, rischiano di essere insostenibili per la maggioranza delle piccole librerie. Una libreria non è una salumeria, dove la permanenza del cliente medio è di pochi minuti; nelle librerie, anche e soprattutto piccole, il cliente non va sapendo già che libro acquistare, ha bisogno di poter esplorare gli scaffali e magari sfogliare qua e là, chiedere consigli al libraio, e insomma trascorrere magari un’ora in quello spazio fuori del tempo che è una libreria. In una piccola libreria, insomma, potrebbero entrare magari due clienti alla volta, facendo i salti mortali per tenersi a distanza e in uno stato d’animo presumibilmente poco rilassato. Solo nelle grandi librerie, in cui possono stare comodamente parecchi clienti e dove è possibile tenere separati i flussi in ingresso e in uscita, sarebbe possibile un’esperienza più “normale”. Il decreto crea quindi anche una distorsione di mercato, che svantaggia ulteriormente le piccole librerie a danno delle grandi catene. Anche il grande editore, che fa pubblicità ai libri su cui punta, sarebbe avvantaggiato rispetto al piccolo, perché è facile che un lettore si presenti in una libreria avendo già deciso di comprare l’ultimo libro di un autore di punta di Mondadori o Feltrinelli ed esca dopo dieci minuti, mentre i libri delle piccole case editrici vanno scoperti, richiedono un’esplorazione quasi amorosa degli scaffali, proprio quello che oggi non si può fare. Non a caso, prima che venisse emanato il decreto, l’Associazione Degli Editori Indipendenti si era pronunciata contro la riapertura.

Per questi motivi, l’autorizzazione all’apertura delle librerie ha ottenuto il paradossale risultato di suscitare le proteste proprio di chi è stato autorizzato ad aprire. In rete ci sono diverse pagine su cui piccoli librai e anche piccoli editori hanno espresso critiche o hanno annunciato che non aderiranno all’apertura; solo per fare alcuni esempi, segnalo una lettera aperta firmata da oltre 150 librai e pubblicata sul blog minima&moralia; un bell’articolo su Artribune; mille annunci di piccole (e non solo) librerie che rifiutano di riaprire (uno per tutti, questo, che riguarda tre librerie di Pistoia che, pur restando chiuse, sottolineano che spediscono libri a domicilio). E allora?

Allora, la morale di questo episodio, che all’interno dell’enorme crisi provocata dalla pandemia può sembrare trascurabile, è che fermare è facile, ma far ripartire è difficile. Anche in un settore relativamente semplice (produzione, distribuzione e vendita al dettaglio dei libri sono processi molto più semplici, in fondo, di quelli che riguardano prodotti complessi, che richiedono la trasformazione di materie prime, l’assemblaggio, ecc.), appena il governo ha deciso la riapertura ha commesso errori che rischiano sia di penalizzare il settore nel suo complesso, sia di creare, all’interno del settore, ulteriori squilibri a favore dei “grandi” e a svantaggio dei “piccoli”. Se ho voluto scrivere questo articolo non è per un futile esercizio di critica al governo, ma per sottolineare, utilizzando l’esempio di un primissimo settore che era stato chiuso e ora viene riaperto, che è facilissimo commettere errori per carenza di approfondimento, e che progettare la cosiddetta Fase 2, che coinvolgerà centinaia di settori, spesso interconnessi, è un’impresa enorme, da affrontare con serietà e umiltà e non con la superficialità con cui, temo di dover concludere, il governo ha aggiunto una riga all’elenco dei prodotti “di prima necessità” forse accogliendo appelli (come quello firmato da molti intellettuali sul Manifesto o quello di Lidia Ravera) più teorici che utili.
Che ce ne rendiamo conto o no, ci aspetta un periodo molto più difficile di quello in cui ci troviamo ora; più difficile da vivere per noi cittadini, che finora abbiamo in fondo dovuto “solo” adattarci a poche regole tutto sommato chiare, e più difficile da programmare e gestire per chi ci amministra. Gli errori, in questo frangente, si pagano caro e subito, come ho già scritto, e purtroppo non li pagano solo coloro che li commettono.

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