La chiave del potere e una visione da qui a 80 anni

Nella storia dell’umanità c’è sempre stato chi ha comandato e chi ha subito. Nessuna riflessione morale se ciò sia giusto o ingiusto perché questi concetti, qui, non sono applicabili. Poiché succedeva anche quando stavamo sugli alberi come scimmie, è del tutto evidente che almeno in questo settore galattico le forme di vita superiori si organizzano lungo catene di comando.

Quello che è cambiato, nella specie umana, è che il comando fondato sulla semplice forza bruta è entrato in parte in crisi con lo sviluppo del cervello, della corteccia cerebrale e di tutte quelle cose lì che, in termini pratici, ci hanno fatti diventare “intelligenti”, ovvero capaci di modificare l’ambiente attorno a noi. Questo non è un post di biologia, o di paleontologia o di psicologia, quindi andate a cercarvi altrove descrizioni più precise di come abbiamo fatto, da scimmie che eravamo, a diventare ciò che siamo oggi. Sotto il profilo di una storia del potere nella nostra specie, certo è che la sola e semplice forza bruta individuale a un certo punto non è bastata più, e lo sviluppo delle tecnologie, per esempio, ha cambiato i giochi; bastoni, poi spade e lance, poi archi e armi da lancio hanno ovviamente cambiato le carte in tavola. Devi essere forzuto e muscoloso, sì, ma se hai una spada affilata è meglio. Poi lo sviluppo di strategie: il branco, sì, ma anche un fossato, un muro, tattiche accerchianti, finte e manovre che già quasi 3.000 anni fa erano ben chiare e codificate (L’arte della guerra). Quindi il pensiero, la capacità di inferire, di pianificare, di valutare… Non è cambiato moltissimo in questi tremila anni in termini di nostro cervello, ma in termini di prodotti tecnologici atti ad affermare un potere, indubbiamente sì.

Il potere non esiste, come concetto, se non relativamente a uno scopo. Il potere dell’uomo forte nelle tribù primitive era molto simile a quello ben presente in moltissime specie di animali: avere accesso alle donne per riprodurre il proprio corredo genetico in un ambiente ostile dove la natura necessita di forza e coraggio per sopravvivere come individui, come gruppo, e come specie. Ma con la rivoluzione agricola, la stanzialità, l’addomesticamento delle bestie, la forza bruta divenne secondaria e le strategie sociali cambiarono. Non più “forza = posso riprodurmi” bensì “potere sugli altri uomini = posso vivere meglio e con meno fatica, e posso lasciare tale potere alla mia casata [come forma di contrasto simbolico alla caducità della morte]”. In una fase della nostra civiltà antica, e poi medioevale, il potere quindi si basava sugli schiavi, sui servi, sul contado obbligato alle decime; e quindi sulla necessità di controllare tali schiavi e servi tramite il potere della spada. È sempre il più forte, ma non più di forza bruta personale bensì di un sodalizio perverso fra il capo (un re, per esempio) e uno stuolo di servitori che ne decretano e legittimano il potere per un fortissimo tornaconto personale: non potendo essere tutti re, lasciamo che lo sia uno solo, e tutti noi facciamo i vescovi che dicono che è dio che lo vuole, facciamo i generali, che tengono a bada i ribelli, facciamo i magistrati, che stabiliscono cosa sia lecito e cosa no – ma sempre in nome e per conto del re, e così via. Poi sappiamo che la storia è piena di generali che hanno fatto la festa al loro re e, più raramente, di popoli che a un certo punto si sono stufati, ma le cose sono andate più o meno così per molti lunghi secoli.

La modernità spezza l’equilibrio già instabile con la crescente richiesta di risorse: più terre per sfamare il popolo, nuove contee per soddisfare i nobili, nuovi popoli da convertire per la gloria dei preti. Ma specialmente, a un certo punto, carbone e ferro per le nostre macchine, poi petrolio per i nostri veicoli. Il potere diventa potere economico-industriale: avere macchine che producono. Chi aveva le macchine comandava, anche sui re e sui vescovi e sui generali, mandati a cercare le risorse necessarie dove si trovavano, e quindi secoli di guerre in Europa e poi colonialismo con tutto ciò che seguì. Macchine per costruire oggetti da vendere, a prezzi sempre più bassi, poi la produzione in serie, la ricerca di mercati… Qui siamo già alla fine dell’800, e il potere dovuto alla detenzione dei mezzi di produzione mira alla ricchezza, al suo medesimo accrescimento, in una nuova teleologia che si impone fuori dall’uomo: nell’alienazione del proletariato descritta da Marx, e nella corrispettiva scissione delle finalità della ricchezza, che dalle singole persone, motivate – alla stregua del signore feudale – alla soddisfazione personale e dei propri discendenti, aggiunge e impone una motivazione autoregolata dal macchinismo, dal mercantilismo, e infine dal capitalismo: che diventa un processo alla ricerca dell’omeostasi, di un moto perpetuo. Il capitalismo vuole sopravvivere indipendentemente dai soggetti che lo interpretano, vive di vita propria, imprigiona l’Occidente prima, il mondo globalizzato poi. Non se ne esce, il grande Moloch corre trascinando tutto e tutti. 

La dimensione del potere però si trasforma ancora. Proprio la globalizzazione, la produzione robotizzata, l’allargamento dei confini cognitivi e tecnologici, in un mondo chiuso e finito che ha finalmente incontrato i suoi limiti fisici, non può produrre sempre più merci, sempre di migliore qualità, a prezzi sempre più bassi, per un numero di persone destinato a non crescere esponenzialmente allo stesso ritmo. Le risorse sono oggi tutte più o meno note e tutte sfruttate ogni oltre possibilità. Il mercato è invaso da prodotti mentre le fabbriche si stanno svuotando lasciando il posto a intelligenze artificiali sempre più complesse. In cosa può consistere, oggi, il potere? Non tanto nel possedere i mezzi di produzione, e neppure le energie per alimentarli, ma solo le informazioni. Informazioni sempre più precise, accompagnate a un inevitabile controllo sempre più sottile, per legarti agli oggetti, imprigionarti nel mercato, completare la tua alienazione come individuo trasformandoti in possessore di cose e di stili eterodiretti  (possiedi l’iPhone ultimo modello, possiedi la muscolatura di moda scolpita nella palestra, ti vesti come i canoni comandano, fai l’amore come ti ha insegnato YouPorn, vai in vacanza dove devi…).

Ma i cicli del potere sono sempre più corti, a causa della vertiginosa crescita tecnologica.

Anche il potere fondato sulle informazioni a fini commerciali durerà poco, solo il necessario per controllarci tutti. La domanda che dovremmo porci è la seguente: quale sarà il prossimo ciclo del potere? Non più la forza, non più la ricchezza, né la produzione… Quando tutti i lavori saranno garantiti da robot intelligenti, autoprogettanti e autoriparanti, e quando la loro produzione di oggetti, conseguentemente, non varrà più nulla, in stretti termini commerciali, chi avrà il potere, quale potere, e per fare cosa? Immaginatevi un futuro (abbastanza vicino) in cui tutto è a disposizione di tutti: nessuno morirà di fame (entro il club dei popoli di Serie A, quelli dell’Occidente industrializzato, Cina, Giappone e pochi altri), tutti avranno una casa (fosse anche un buco di 20 metri quadri) tutti avranno vestiti, nessuno dovrà lavorare (ci penseranno i robot). In questo futuro prossimo, così straordinariamente lontano dall’uomo della pietra, ritroveremo comunque due antiche costanti dell’essere umano, che dobbiamo capire prima di lanciarci in una riflessione futurologica.

La prima costante dell’essere umano è l’insoddisfazione. Potreste anche mangiare caviale tutti i giorni (o qualunque altro cibo di vostro gradimento) ma non dovreste aspettare molto prima di stancarvene e desiderare qualcosa d’altro, e non serve che ce l’abbia anche ben spiegato Hirschman perché il sentire comune lo sa già da sempre. L’essere umano non è una vacca contenta della sua erba fresca al pascolo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. È, al contrario, “costruito” per superare i limiti, per esplorare spazi, per osare, per cambiare. E poiché l’evoluzione tecnologica ha proceduto con velocità incomparabilmente superiori a quelle necessarie all’adattamento culturale (e quindi sociale), ne consegue che noi siamo sempre quelli, più o meno come i cavernicoli, certamente come i popoli del medioevo. Semplicemente sarà difficile tenere milioni (miliardi?) di persone, nutrite, vestite e con un tetto sopra la testa, vita natural durante, a girarsi i pollici. L’insoddisfazione individuale si sedimenterebbe rapidamente in una crisi di massa di enorme gravità. L’antidoto, ovviamente, è l’omologazione di massa. Un popolo omologato, con più difficoltà mostrerà insoddisfazione fino alle estreme conseguenze dell’indisciplina e della disubbidienza, ma resteranno sempre, inevitabilmente, i disadattati, artisti, intellettuali rompiscatole da sottoporre a stretto controllo affinché non sobillino il popolo.

La seconda costante, geneticamente impressa nel nostro DNA di specie, è quella del dominio. Qui si vede bene la distanza fra l’evoluzione genetica, quella tecnologica, e gli adattamenti sociali: dentro di noi siamo ancora quelli con la clava che marchiano il territorio, sottomettono i più deboli e predano le donne per riprodursi. Noi siamo quelli anche se appariamo perbenino, siamo laureati e leggiamo poesie. Il potere – abbiamo scritto sopra – deve avere una finalità, ma unendo queste due costanti le finalità, e con esse il nostro destino, sono già definite. 

Il mondo che verrà sarà costituito da un popolo insoddisfatto e da un’élite che cercherà di domarlo. Un popolo insoddisfatto anche se con la pancia piena, libera dalla schiavitù del lavoro, e un’élite che gestirà il patrimonio informativo e di controllo che proprio ora si sta costruendo, per tenere le mucche buone al pascolo senza troppe storie.

Il mondo del futuro che io vedo, quindi, contemplerà una ristretta élite al comando, immobile, accessibile solo per cooptazione e con enorme difficoltà, che deciderà le sorti del mondo; una pletora di mandarini (tecnici, manipolatori dell’informazione, intellettuali intrattenitori dell’élite…) ugualmente conservativa e autoperpetuante; una massa enorme di cittadini che potranno fare tutto ciò che vorranno (ne avranno il tempo e le opportunità) tranne contestare attivamente il potere. Infine un mondo esterno (Africa, Sud America, buona parte dell’Asia…) escluso completamente, sfruttato all’estremo per le risorse e per il resto abbandonato a se stesso.

Come avviene spesso nella storia, ci sono le avvisaglie; degli esempi concreti e ispiratori che ci fanno intendere che le cose potranno andare in un determinato modo. L’esempio che sorregge questa visione del nostro prossimo futuro è la Cina. Quanto sopra è già concreta realtà in Cina; ancora in divenire, ancora imperfetta, ma con una strada chiaramente imboccata. Non dovrà passare molto tempo affinché il modello cinese, assolutamente vincente sugli altri competitori (oligarchico russo, liberista occidentale, populista latinoamericano), non venga imitato, prima con forme ibride che toglieranno, uno dopo l’altro, spazi di libertà che davamo per scontati, poi via via con più forza e velocità (pena una sconfitta planetaria a favore della Cina). Quando il processo sarà completato, non ci sarà più alcuna necessità di conflitti fra Cina, America, Europa e Russia, perché saranno uguali, e ugualmente solidali nella gestione del mondo.

Con le tecnologie già disponibili, e quelle immaginabili, credo che già nel 2050 i giochi saranno prossimi a essere conclusi, e nel mezzo secolo seguente il mondo sarà, diciamo così, definitivamente perfezionato.

L’attuale generazione giovane sarà probabilmente l’ultima che potrà avere un qualche margine per scegliere su quale lato del mondo, e del potere, collocare se stessa e la propria discendenza.