A partire dal 25 maggio 2020 l’Istat, in accordo col Ministero della salute, ha condotto – e ora conclusa – una ricerca sulla sieroprevalenza fra gli italiani, in relazione ovviamente al Covid 19 (QUI la nota informativa Istat). Apprendiamo oggi che anziché i 150.000 individui, estratti con tutti i crismi probabilistici, l’Istat è riuscita a portare a termine la rilevazione (contatto telefonico più test sierologico) su circa la metà del campione (QUI la notizia); i responsabili della ricerca assicurano che
il risultato raggiunto è comunque utile a definire un campione rappresentativo per individuare la percentuale di quanti hanno sviluppato gli anticorpi al coronavirus anche in assenza di sintomi e stimare l’estensione dell’infezione per modulare le misure di contenimento del contagio. Conforta il fatto che in Germania e in Spagna ci sono arrivati basandosi su meno di 50.000 test effettuati e con un target assai più ridotto.
Tutto questo è sbagliato.
Premessa: non sono un virologo né un epidemiologo, quindi do per scontato che questa ricerca sia utile (sarebbe stata utile) per capire meglio come si diffonde il virus, e quindi per combatterlo. Ho dei dubbi sul metodo e sul risultato, temi sui quali so invece dire qualcosina.
- I 75.000 italiani frutto del caso (ci tornerò al prossimo punto) ed estratti con un determinato criterio, non sono comparabili coi 50.000 tedeschi e spagnoli, estratti (forse) con altri criteri e (forse) con altri tassi di caduta (= persone che non accettano l’intervista o, in questo caso, il test). Paradossalmente, date certe condizioni (che io non posso sapere se sussistano) potrebbero avere assai più validità quei 50.000 dei nostri 75.000;
- il difetto fondamentale riguarda la differenza fra chi risponde e chi no, ed è un difetto che vale per tutte le indagine a mezzo posta, telefono, web. È ovvio che ci deve essere una differenza, no? Essere più propensi ad accettare di rispondere, correre a fare il test interpretando in tale modo positivo la sollecitazione dell’Istat, ovvero chiudere il telefono in faccia all’operatore e infischiarsene altamente, presuppone due profili psicologici, sociologici, antropologici differenti, che hanno a che fare con due diversi modi di capire, di collaborare, di interpretare la pandemia, di sentirsi cittadini e molto altro. Quindi il campione dei 75.000 “ha qualcosa di diverso” dai 75.000 che non hanno risposto, diversità anche – forse – di comportamenti in merito alla pandemia; ciò che emergerà dai rispondenti, quindi, non potrà essere generalizzato all’intera popolazione di italiani;
- al problema di cui sopra si può dare una risposta in termini di manipolazione dei dati, aggiustandoli ex post, a patto che si conoscano le abitudini e i comportamenti dei non rispondenti. In un’analisi dei comportamenti di guida, per esempio, se i motociclisti rispondessero molto meno degli automobilisti, potrei costruire un modello delle differenze fra i due gruppi, in modo da “raddrizzare” la statistica; ma nel nostro caso non sappiamo nulla in merito a coloro che non hanno risposto, e quindi non si potrà fare alcun aggiustamento;
- a fortiori: la bizzarra distribuzione geografica, con differenze enormi fra regioni confinanti, sottolinea come le differenze infra campione siano considerevoli e ignote;
- si punta il dito – è scritto sull’articolo di giornale menzionato sopra – sulla campagna informativa. Cosa? Come? Campagna informativa? Io, nel mio piccolo, che passo la prima metà della mattinata a compulsare i quotidiani, non ne sapevo nulla… Voi, cari lettori, sapevate dell’indagine ed eravate prontissimi a rispondere al telefono?
- Infine: tutte le indagini, di qualunque tipo, realizzate col telefono, sono destinate a fallire. Parecchi anni fa, quando ancora avevano una loro parziale validità, io scrivevo testi tecnici e scientifici spiegando perché occorreva prudenza nel loro utilizzo. Da qualche anni dico e scrivo che sono sempre e totalmente inutilizzabili, specie nei casi – come questo – in cui non abbiamo conoscenze pregresse sul fenomeno indagato. L’ultima frase è importante; nel caso dei sondaggi politici, sui quali abbiamo già scritto alcune cose, alcune precondizioni positive (la conoscenza di flussi elettorali, la comparazione coi sondaggi condotti da altri istituti, la riflessione politologica…) consentono di fare una fotografia all’incirca veritiera sugli orientamenti politici degli italiani (solo “all’incirca”, e difatti i diversi sondaggi arrivano a conclusioni anche discretamente differenti); ma in questo caso, come già sottolineato, non sappiamo nulla del virus, del comportamento degli italiani e via discorrendo. Quindi affidarsi alla sola indagine telefonica (si sarebbero potuti aggiungere altri “sostegni” alla ricerca), e senza una forte sensibilizzazione, era una strategia ovviamente destinata al fallimento.
Questo giochino è costato 4,5 milioni. Soldi spesi bene se la ricerca portasse da qualche parte. Soldi buttati se non condurrà da nessuna parte. Soldi che non si dovevano assolutamente spendere se il lavoro condurrà a risultati inesatti. Come Immuni, che non è costata soldi pubblici ma si è rivelata un’idea sconclusionata. Come i tamponi che non si fanno. Come le mascherine da mettere, da non mettere, a 50 centesimi, oppure no…
L’idea, ancora una volta, è che l’effetto demagogico e comunicativo, fare cose, dire cose, fare ammuina, prevalga sulla pianificazione, la programmazione, il varo di politiche (e indagini) efficaci.