In quest’estate ormai rovente, vorrei dedicare un post a una riflessione slegata dall’attualità, o, se preferite, costantemente d’attualità: la stagnazione da cui il nostro paese non riesce a liberarsi.
Sappiamo tutti, e abbiamo spesso ripetuto sulle pagine di Hic Rhodus, che il grande male dell’Italia è la sua incapacità di far crescere la produttività. Senza dedicare troppo tempo a riepilogare i dati che dimostrano questa condizione apparentemente irreversibile, penso basti il grafico qui sotto per far comprendere quanto quest’incapacità, indipendente da questa o quella crisi, sia un vero e proprio unicum nazionale.

Ora, ho letto molti tentativi di spiegazione di questo fenomeno, ma devo riconoscere che, pur apprezzandone diverse, non riesco a trovarne nessuna davvero persuasiva, né peraltro mi sento in grado di proporne una originale, vista anche la mole di studi e l’autorevolezza degli analisti che se ne sono occupati. Mi limiterò a una constatazione in un certo senso psicologica, che potrebbe essere forse una conseguenza piuttosto che la causa della stagnazione, e che pure al perdurare della stagnazione fornisce a mio avviso un notevole contributo. La prendo un po’ alla larga, vi avverto.
Nel 2004 fu pubblicato un libro di marketing strategico intitolato The Blue Ocean Strategy. Gli autori sostanzialmente scrivevano che molte aziende insistono a competere all’interno di Red Oceans, “oceani rossi”, resi tali dal sangue sparso dalla feroce competizione tra mille predatori, che si contendono il cibo. Un Red Ocean è uno spazio chiuso dotato di risorse limitate, nel quale si può guadagnare qualcosa solo a spese di qualcun altro; per quanto abili ed efficienti si sia, non c’è modo di accrescere la ricchezza complessiva di tutti coloro che abitano un Oceano Rosso. In parole più prosaiche, un Oceano Rosso è uno stagno, e i pesci che vivono nello stagno non possono fare altro che cercare di sottrarsi risorse a vicenda.
Un Blue Ocean, invece, è uno spazio inesplorato, aperto, dove non si deve combattere l’uno contro l’altro perché ci sono risorse non ancora sfruttate. La vera difficoltà sta nel trovare, o in un certo senso nel creare, un Blue Ocean. Apple, con iTunes, trovò un Blue Ocean nel campo della musica, ad esempio; ed Elon Musk, innovatore estremo e ricercatore spasmodico di Blue Ocean, non a caso qualche anno fa ha deciso di rendere di dominio pubblico i suoi brevetti sulla tecnologia per le auto elettriche: se serviranno a espandere più rapidamente il Blue Ocean delle automobili elettriche, intelligenti e a guida autonoma, lui ci guadagnerà comunque.
No, questo post non è una lezione di marketing. Piuttosto, è chiaro che le strategie (e le prospettive) di sopravvivenza di chi vive in uno stagno e di chi vive nell’oceano aperto sono molto diverse. Lo stagno, per quanto astuti e feroci siano i suoi abitanti, non potrà che restringersi, man mano che l’inevitabile deterioramento delle risorse che contiene ne ridurrà la capacità vitale. Chiamandolo in un altro modo, lo stagno è un sistema a somma zero, nel quale l’unico modo di ottenere un guadagno è a spese di qualcun altro; in un Blue Ocean, invece, la collaborazione funziona meglio della competizione, perché produce un sistema a somma positiva, in cui potenzialmente tutti possono crescere e svilupparsi.
Naturalmente, l’economia di un paese non può essere costituita di soli Blue Ocean, perché ci saranno sempre settori tradizionali e consolidati, o che sembreranno tali finché qualcuno non troverà il modo di rivoluzionarli. Ma, proprio perché un settore apparentemente stagnante può improvvisamente essere “aperto” da un’idea innovativa, la vera differenza la fa la mentalità degli abitanti dell’ “ecosistema”. Per trovare un Blue Ocean bisogna crederci, e l’unica cosa peggiore di vivere in uno stagno è credere di vivere in uno stagno. Ebbene, questa a mio avviso è la mentalità quasi universalmente diffusa in Italia: tutti siamo convinti di vivere in uno stagno, le cui declinanti risorse (che facciamo di tutto per soffiarci a vicenda) hanno semmai bisogno di essere protette da predatori esterni, ma i cui confini non abbiamo nessuna speranza di poter ampliare. Pensiamo a come “fregare” il vicino, o farci sovvenzionare dallo Stato (che alla fine è la stessa cosa), non a come creare nuova ricchezza per tutti. Questa mentalità “a somma zero” è la ricetta infallibile per il declino e l’impoverimento collettivo, ed è un problema che in questi anni abbiamo affrontato sotto diversi aspetti; mi limito a ricordare quanto, in termini di benefici individuali e collettivi, una strategia cooperativa sia superiore a una competitiva nel lungo termine (v. qui un esempio preso dalla teoria dei giochi).
In sintesi, io non so se sia la percezione del lungo periodo di stagnazione economica e culturale del nostro paese a essere la causa della mentalità “da somma zero”, o se questa mentalità che dà per scontato il declino sia tra le cause dello stesso declino. So però che se vogliamo uscire dalla spirale discendente abbiamo bisogno di abbandonare questa cultura disastrosa, di smettere di buttare risorse in cadaveri come l’Alitalia o in pensioni anticipate e investirle in leve per aumentare la produttività e offrire spazi nuovi di crescita a chi abbia idee e capacità. Dobbiamo abbandonare lo stagno in via di evaporazione in cui siamo un po’ tutti invischiati, e credere che un po’ più in là possa esserci un oceano più azzurro.