Nel mio ultimo articolo, ho insistito parecchio sul fatto che in generale noi italiani rifiutiamo il concetto stesso di responsabilità, e ho affermato che questo è un tratto comportamentale tipico dell’età infantile, o al massimo adolescenziale, ma incompatibile con l’essere adulti.
A questo punto, giustamente, mi si potrebbe chiedere: ma tu che lo usi come parametro discriminante tra fanciulli e adulti, cosa intendi per responsabilità? Come dovrebbe funzionare? Come ti aspetti che si comporti una persona che accetta le sue responsabilità?
Dato che non amo dare per scontate neanche (o forse soprattutto) le affermazioni che faccio io, ho pensato di provare a scriverlo, cosa significa per me responsabilità. Devo riconoscere di possedere alcune convinzioni di cui non posso fornire una “dimostrazione”, perché sono radicate in me in base alla mia esperienza, non in base a un’analisi teorica: in un certo senso sono degli assiomi. Ovviamente, si tratta di cose che ho imparato nel corso della vita, perché da bambino, come tutti, non ne conoscevo il valore; può darsi che altri abbiano imparato cose diverse, e anche per questo può valere la pena di parlarne. Se non condividete le mie, ricordatevi che per me ormai sono assiomi: non sto cercando di convincere nessuno; semplicemente, sappiate che se un giorno lavoreremo insieme e io avrò la responsabilità di decidere come organizzarci, tenterò di imporvi i miei assiomi.
1: Dal potere derivano le responsabilità.
Questa è probabilmente stata la prima cosa che ho imparato sulla responsabilità, e me l’ha insegnata il più “etico” degli eroi della mia fanciullezza, l’Uomo Ragno. Dotato improvvisamente di grandi poteri quando è pur sempre un adolescente (appunto), si trova a dover transitare anticipatamente nell’età adulta proprio per poter accettare e sostenere le responsabilità che da quei poteri derivano.
Desiderare il potere è facile; riconoscere e accettare, senza eluderle, le responsabilità che ne conseguono è molto più difficile. Per converso, non è possibile attribuire responsabilità a qualcuno senza conferirgli anche il potere necessario per sostenerle.
Tutte queste considerazioni sono banali, lo so, eppure se ci guardiamo intorno constatiamo che non si possono dare per scontate. Ad esempio, non di rado nel nostro paese chi ha potere pur di non assumersi una responsabilità rinuncia a esercitarlo, o costituisce forme consociative per gestirlo, o il potere stesso è frammentato in mille schegge, a causa della falsa pretesa di voler stabilire “pesi e contrappesi” al suo esercizio, con il risultato in genere di rendere confuse e indecifrabili le responsabilità. I “contrappesi” non si creano spezzettando il potere, ma istituendo organi di controllo, che avranno dei loro poteri, anche in questo caso autonomi, del cui esercizio saranno responsabili.
2: Per ogni obiettivo importante, una sola persona deve essere responsabile.
Da qui in poi, le “lezioni” sulla responsabilità più che dai fumetti mi sono venute dalla vita lavorativa (e non). Questo assioma è forse il più controverso e meno condiviso di questo elenco. Può evocare l’idea di un’organizzazione gerarchica, in cui il “capo” è responsabile di tutto, e le organizzazioni gerarchiche sono molto poco di moda; molto più di moda sono i gruppi di lavoro paritari, ad esempio, in cui un vero e proprio capo non c’è, oppure le organizzazioni reticolari. Ma questo assioma non parla di una struttura organizzativa, ma di obiettivi. Se un’organizzazione facesse sempre la stessa cosa nello stesso modo, e nient’altro, una struttura gerarchica rigida andrebbe benissimo; dato che questa situazione oggi non esiste quasi da nessuna parte, anche le strutture organizzative sono più flessibili, e va benissimo. Quello che però il mio assioma dice è che per ogni obiettivo debba esserci un responsabile. Se lavoro in gruppo, secondo me (che sono comunque uno della vecchia guardia, e la mia esperienza è quella di un “anziano”), qualcuno dovrà comunque essere responsabile unico dell’obiettivo complessivo del gruppo, e l’organizzazione del gruppo funzionerà se ogni partecipante sarà univocamente responsabile di qualcosa, anche se dovrà comunque collaborare con gli altri per gli obiettivi di cui sono responsabili loro, mentre non funzionerà se tutti saranno responsabili di tutto.
3: Le attività si delegano, la responsabilità no.
Dei miei assiomi, questo è forse il più importante. Nessuno che abbia potere, e quindi sia responsabile di qualcosa di più di quello che una persona può fare da sola, può pensare di compiere di propria mano tutte le azioni che assicurano che la sua responsabilità sia soddisfatta. Delegare le attività è non solo necessario, ma parte del concetto stesso di un’organizzazione che debba realizzare obiettivi non banali.
Ma delegare (o meno) un’attività non cambia nulla dal punto di vista della responsabilità. Chi era responsabile prima (e si è comunque responsabili verso qualcuno: familiari, clienti, cittadini, Padreterno… in generale verso quelli che si chiamano stakeholder) continua a esserlo interamente anche dopo.
Se dico che quest’assioma è così importante è perché è continuamente violato, spesso persino in buona fede. Molte persone sono (o sembrano) davvero convinte che una volta delegata un’attività questa non le riguardi più, o al limite le riguardi come stakeholder e non come responsabili diretti. Molto spesso, ovviamente, i responsabili usano invece la delega per eludere consapevolmente le proprie responsabilità. Quante volte abbiamo visto, che so, un sindaco attribuire la responsabilità di un disservizio a un appaltatore inefficiente o a un’azienda municipalizzata allo sbando? Un’argomentazione del genere, pur comunissima, dovrebbe immediatamente suscitare una raffica di insulti e la cacciata a pedate del sindaco dal territorio comunale; invece, purtroppo, viene spesso considerata ragionevole.
4: La responsabilità non si divide, si moltiplica.
Una conseguenza dell’assioma precedente è che la responsabilità complessiva associata a un dato obiettivo non è una quantità costante. Se io, nei confronti del signor Tizio, sono responsabile al 100% (come dovrebbe essere in base all’assioma 2) della cosa A, se la divido in tre sottoobiettivi B, C e D di cui il primo conto di realizzarlo personalmente e gli altri due li “subappalto” ai signori X e Y, il risultato sarà che io sono comunque al 100% responsabile di A e quindi di B, C e D, ma in più X sarà responsabile al 100% di C e Y sarà responsabile al 100% di D. Questa moltiplicazione della responsabilità deriva ovviamente dal fatto che io continuo a essere responsabile verso il signor Tizio, mentre X e Y sono responsabili solo verso di me. Il signor Tizio potrebbe e dovrebbe ignorare anche la sola esistenza di X e Y, e se per ragioni pratiche dovesse averci a che fare dovrà considerare ogni parola e atto di X e Y esattamente come se li avessi compiuti io personalmente.
5: Chi controlla il responsabile di un obiettivo non deve avere poteri sulla realizzazione dell’obiettivo stesso.
Capisco che possa sembrare ovvio: chi esercita una funzione di controllo deve essere distinto da chi agisce (e ha quindi la responsabilità dell’obiettivo). Eppure, anche in questo caso sono innumerevoli le circostanze in cui il “controllore” viene coinvolto operativamente nelle attività, col risultato di rendere inefficace se non sospetta la funzione di controllo. Peggio ancora se a essere coinvolti sono gli stakeholder stessi, in una forma di consociativismo che rende poi praticamente impossibile l’attribuzione di responsabilità sui risultati; nei casi in cui gli stakeholder debbano necessariamente avere un ruolo operativo, la funzione di controllo deve essere affidata a un soggetto terzo.
Ora, mi rendo conto di aver scritto una serie di affermazioni che possono apparire generiche, ovvie o entrambe le cose. Vorrei quindi prendere un esempio concreto e di immediata applicazione per mostrare la differenza tra quanto “prescrivono” i miei assiomi e quello che succede in pratica. Come esempio, in omaggio all’attualità, farò riferimento al documento Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia nella versione del 21 agosto, redatto dal Gruppo di Lavoro costituito da ISS, Ministero della Salute, Ministero dell’Istruzione, INAIL, Fondazione Bruno Kessler, Regione Emilia-Romagna, Regione Veneto.
È fin troppo evidente che già solo il titolo e la composizione del Gruppo di Lavoro suscitano sospetti in chi accetti gli assiomi 1 e 2 descritti qui sopra: chi è responsabile? E di cosa?
Intendiamoci: è chiaro che di fronte a un obiettivo complesso le competenze necessarie per raggiungerlo possono essere varie e anche eterogenee, e che i gruppi di lavoro congiunti, costituiti ad hoc per uno specifico progetto, sono certamente necessari in casi come questo, ma anche i lavori di gruppo devono rispondere a un responsabile. In realtà, questo gruppo di lavoro ha una funzione tecnica, non decisionale, e questo è chiarito fin dalle primissime pagine del documento: «Questo documento, in previsione della prossima riapertura delle scuole (settembre 2020), vuole fornire un supporto operativo ai decisori e agli operatori nel settore scolastico […]». Insomma, il documento sembrerebbe costituire un contributo consulenziale per chi è responsabile di decidere, e in questo senso i sospetti di cui sopra sarebbero infondati. Eppure, mi è difficile sfuggire alla persuasione che il decisore userà questo documento per… evitare di decidere, dichiarando che si limiterà ad applicare e raccomandazioni dei “tecnici” (ammesso che i soggetti sopra elencati possano considerarsi tali). Ma vedremo più avanti se questa mia diffidenza troverà qualche conferma.
Torniamo invece al punto di partenza: qual è l’obiettivo? No, non può essere «la gestione dei casi e focolai»: questo non è un obiettivo, è un mezzo. L’obiettivo non può che essere la protezione di studenti e personale scolastico (e, in seconda istanza, la popolazione complessiva) dal SARS-CoV-2. Detto questo, è evidente chi siano gli stakeholder: gli studenti, le loro famiglie, il personale scolastico. Ed è altrettanto evidente che il responsabile di questo obiettivo altri non può essere che il Ministero dell’Istruzione, pur tenendo conto (ma senza assecondarla) della patologica frammentazione delle responsabilità nelle nostre istituzioni. Ok?
Ora, prendiamo un passaggio del documento di cui si è anche discusso sui media. A pagina 4 del documento (il grassetto è mio) leggiamo:
Ai fini dell’identificazione precoce dei casi sospetti è necessario prevedere:
– un sistema di monitoraggio dello stato di salute degli alunni e del personale scolastico;
– il coinvolgimento delle famiglie nell’effettuare il controllo della temperatura corporea del bambino/studente a casa ogni giorno prima di recarsi al servizio educativo dell’infanzia o a scuola;
– la misurazione della temperatura corporea al bisogno (es. malore a scuola di uno studente o di un operatore scolastico), da parte del personale scolastico individuato, mediante l’uso di termometri che non prevedono il contatto che andranno preventivamente reperiti;
– la collaborazione dei genitori nel contattare il proprio medico curante (PLS o MMG) per le operatività connesse alla valutazione clinica e all’eventuale prescrizione del tampone naso-faringeo.
E, a pagina 9:
Nel caso in cui un alunno presenti un aumento della temperatura corporea al di sopra di 37,5°C o un sintomo compatibile con COVID-19, in ambito scolastico
– L’operatore scolastico che viene a conoscenza di un alunno sintomatico deve avvisare il referente scolastico per COVID-19.
– Il referente scolastico per COVID-19 o altro componente del personale scolastico deve telefonare immediatamente ai genitori/tutore legale.
– Ospitare l’alunno in una stanza dedicata o in un’area di isolamento.
– Procedere all’eventuale rilevazione della temperatura corporea, da parte del personale scolastico individuato, mediante l’uso di termometri che non prevedono il contatto.
[…]
– Far indossare una mascherina chirurgica all’alunno se ha un’età superiore ai 6 anni e se la tollera.
– Fare rispettare, in assenza di mascherina, l’etichetta respiratoria (tossire e starnutire direttamente su di un fazzoletto di carta o nella piega del gomito). Questi fazzoletti dovranno essere riposti dallo stesso alunno, se possibile, ponendoli dentro un sacchetto chiuso.
[eccetera]
A me pare chiaro che questi passaggi dimostrino la plateale violazione di tutti i “miei” assiomi. Il responsabile (ossia il MIUR) per poter onorare la propria responsabilità, deve avere il controllo al 100% di tutto quello che deve essere fatto, eventualmente da persone all’uopo delegate, per garantire l’obiettivo di proteggere gli studenti e il personale scolastico. Non è ammissibile che attività chiave per l’obiettivo siano affidate alle famiglie, che sono degli stakeholder e che non sono sotto il controllo del MIUR, né che l’effettiva attuazione e i risultati di quelle attività rimangano ignoti al MIUR stesso. Non è ammissibile che ad altri passaggi cruciali si faccia riferimento in termini ipotetici (eventuale, al bisogno, se possibile, se la tollera…). Non è ammissibile che si ipotizzi che un operatore scolastico «venga a conoscenza» (come?) del fatto che un alunno presenti sintomi e in particolare febbre sopra i 37,5 °C senza che sia prevista a scuola la misurazione della temperatura corporea, anzi, che tale misurazione sia prevista, eventualmente, solo dopo che l’operatore scolastico, dotato evidentemente di poteri soprannaturali, sia già venuto a conoscenza di tale temperatura e abbia avvisato il referente scolastico.
Questo documento non è un ‘documento tecnico a supporto dei decisori’. Questo è un documento il cui vero scopo è delineare delle modalità operative per evitare che chiunque, e in particolare il Ministero dell’Istruzione, debba assumersi la minima responsabilità. La responsabilità di impedire che uno studente o un operatore scolastico con la febbre entrino a scuola è, assurdamente, assegnata non a controlli in loco gestiti con mezzi e procedure definiti dal Ministero, ma rispettivamente alle famiglie e agli operatori stessi, ossia alle stesse persone che queste procedure dovrebbero avere l’obiettivo di proteggere, il tutto fuori della visibilità del Ministero e senza alcuna verifica. La responsabilità del Ministero viene ribaltata pari pari sugli stakeholder, in piena contraddizione con ogni principio di gestione di poteri e responsabilità. D’altronde, per comprendere quale sia il grado di assunzione di responsabilità del governo, a partire dal ministro Azzolina, invito ad ascoltare questa intervista di Radio Radicale al presidente dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici. Tra l’altro, intorno al minuto 12.15 l’intervistato riferisce «La Azzolina ha detto “la responsabilità va condivisa”, e io sono d’accordo: le famiglie devono prendersi parte della responsabilità […] la scuola non può fare tutto, il Ministero dell’Istruzione non può fare tutto. La responsabilità va condivisa anche con gli altri ministeri, ha sostenuto Azzolina […]». Ecco, in queste poche parole, che contrastano direttamente con tutti i “miei” assiomi e in cui si confonde l’impossibilità che un singolo soggetto compia materialmente tutte le azioni necessarie per un obiettivo con la responsabilità di quell’obiettivo, si può ritrovare l’inconciliabilità della mia personale filosofia sulla responsabilità e del modo in cui ampia parte della classe dirigente del nostro paese concepisce l’esercizio del potere. Si noti che poche parole dopo lo stesso intervistato rileva nelle procedure delle linee guida le stesse assurdità che ho citato io qui sopra, evidentemente senza poterne o volerne far risalire la causa al modello di diluizione consociativa della responsabilità.
Spero di aver chiarito con questo esempio cosa intendo con corretta gestione delle responsabilità, e perché mi sono preso la briga di mettere per iscritto dei principi che possono facilmente sembrare banali o comunque poco interessanti. La verità è che purtroppo, in questo paese di irresponsabili, persino i fumetti per ragazzi sono esempi migliori dei documenti governativi quanto ad assunzione onesta e trasparente delle responsabilità.