Il 45esimo presidente non è affatto un incidente nella Storia, inspiegabile e irripetibile. Con la sua misoginia e il suo razzismo, con il suo posticcio “Make America Great Again”, è e resta lo specchio, deformato quanto si vuole, di una Nazione che in lui comunque si riflette. E che per questo, qualunque sia l’esito del voto, lascerà tracce profonde nel corpo di quella democrazia. (Mattia Feltri)
Non so se avete tempo per seguire un po’ le vicende americane, in particolare questo ultimo miglio verso le elezioni presidenziali (3 novembre) che, secondo alcuni osservatori, potrebbero essere rivinte da Trump. Ora: se non siete capitati per caso su questo blog, immagino siate persone che non solo non amate Trump, ma lo considerate un serissimo pericolo per la democrazia di quel paese e, per ovvie ragioni, per la stabilità del Pianeta. Insomma: chi governa negli States viene votato da elettori americani, ma ci riguarda tutti in concreto (ed è ora di considerare alla stessa stregua chi governa in Cina…). Ci riguarda per le politiche di guerra che ci coinvolgono via Nato nelle operazioni militari e, successivamente, nelle ritorsioni terroristiche e migratorie; ci riguarda per le lotte commerciali che valgono milioni di Euro; ci riguarda per l’esempio diretto e indiretto di un modo di fare politica (?), legittimando per esempio un certo atteggiamento verso l’uso delle armi, verso i deboli e le minoranze, verso le donne e così via. Trump non è un problema solo degli americani anche se, senza ombra di dubbio, è principalmente il loro, alle prese col Covid, il razzismo, eccetera.
Quello che vorrei sottolineare, comunque, è la differenza fra la questione USA-Trump e quelle Cina-Xi e Russia-Putin. La differenza fondamentale (almeno quella che ci raccontiamo) è che il primo è stato eletto, e forse verrà rieletto, nella maniera più democratica che possiamo immaginare: non brogli elettorali, non violenze, non polizia per le strade, non intrusioni nella privacy elettorale. Non solo; aggiungiamo il benessere diffuso, l’istruzione mediamente elevata, una salute generalmente buona (comparando con altri paesi, ovvio: date un’occhiata QUI per le statistiche generali). Parliamo della nazione che ha inventato tutto, il giornalismo d’inchiesta e Internet, il merito scolastico e la produzione in serie, e che da sempre viene considerata (ma è solo un cliché) “la più grande democrazia mondiale”. Non una satrapia asiatica, non un paese africano lacerato dall’odio etnico, non uno stato delle banane sudamericano. Ecco: nella più grande democrazia del mondo, nella più grande economia, nella più grande potenza militare e nucleare, comanda uno squilibrato egotico eletto democraticamente dal popolo sovrano, che si accinge (se avete un Euro che avanza scommettetelo) a essere rieletto.
Non vi sembra che ci sia qualcosa che non va?
Quello che non va, e che mi affanno a dire da alcuni anni, è che ragioniamo, nel Terzo Millennio, con categorie del Novecento, a loro volta mutuate dal secolo precedente, e “democrazia” è il primo e più importante dei concetti obsoleti che impieghiamo in maniera non funzionale. La democrazia del Novecento, attingendo abbondantemente dai filosofi illuministi e loro epigoni, ha a che fare con un sistema perfetto e chiuso:
- perfetto: tutti i cittadini sono uguali, e ugualmente sanno e possono esprimere la loro libera opinione:
- chiuso: il mondo è culturalmente e scientificamente circoscrivibile, è comprensibile (con un adeguato sforzo informativo) e alla portata di tutti.
Queste due idee, che sono alla base del pensiero cartesiano, sono state credute vere nel Setto, Otto e Novecento, sostanzialmente ignorando alcune questioncelle che disturbavano il modello: le disuguaglianze che rendevano gli uomini sempre meno uguali e il mondo che si apriva sempre di più rendendolo velocemente incomprensibile. E mentre le scienze umane e sociali indicavano le disuguaglianze, la complessità, i mutamenti sociali in atto, la filosofia politica è rimasta a difendere un modello che ha richiesto sforzi sempre più palesemente anti democratici per restare in sella: controllo sociale sui cittadini, mantenimento delle disuguaglianze, politica come potere e non come amministrazione, falsità, minacce. Se l’accesso alle risorse, alla salute, all’istruzione, al lavoro, sono così esageratamente minacciate nel nostro mondo (USA, Europa, Giappone…), in che senso, esattamente, lo definiamo ancora “democratico” citando oziosamente a vanvera Tocqueville e Pericle?
Lo definiamo democratico per pigrizia mentale, per paura di guardare in faccia la realtà, aggrappandoci a un residuo formale del modello democratico: la vigenza dei diritti politici attivi e passivi. Poiché ogni due per tre votiamo per qualcosa, e il diritto di voto è universale, allora siamo in democrazia, poiché il suo contrario (la dittatura) non ci farebbe votare; ma basterebbe guardare alla Russia, o al Brasile, per capire come ciò non sia vero. Supponiamo comunque questo: che le ingiustizie sociali e le disuguaglianze siano una stortura sociale causata dalla nostra incapacità a gestire saggiamente la cosa pubblica, che quindi una buona politica, col tempo, riuscirebbe a ripianare tali ingiustizie, e che quindi il vero e unico diritto, inalienabile, che rende un governo “democratico” è – appunto – il voto popolare universale; e a tutto il resto si cerca e si cercherà di porre rimedio piano piano. Se siete di questo avviso mi permetto amichevolmente di dirvi che siete illusi assai, perché la macchina democratica così come asserita, dichiarata, vantata e lodata funziona SOLO sotto l’egida dei due punti sopra; ricordate? 1) tutti i cittadini sono uguali, e 2) il mondo è un contesto chiuso (nel senso specificato). Spero di non dovere ripetere, un’altra volta ancora, che non sono veri entrambi gli asserti.
Gli uomini sono tutti diversi, da completi mascalzoni ignoranti e abbruttiti a grandi menti dedite al bene comune, e vanno parimenti a votare; costoro vivono in un mondo aperto, esploso, complessissimo, del quale possono cogliere indizi di potenziale verità e nulla più. Fine della storia. Quelli che andranno a decidere chi sarà il prossimo presidente americano sono gli intellettuali dell’Upper West Side di New York assieme ai vaccari texani che credono nel creazionismo, i liberal di Boston assieme a quelli che in Michigan hanno protestato in massa, fucili in spalla, contro le misure di contenimento del virus. In America ci sono i neri del black lives matter e un sacco di bianchi che gli sparerebbero senza problemi. E tutti costoro, se vorranno, andranno a votare. Mi dite, per favore, che senso ha? La stragrande maggioranza di questi elettori non sa – se non molto approssimativamente – dove sia l’Italia; ha come elemento centrale del famoso “stile di vita” da difendere ad ogni costo il barbecue il giardino, espone con fierezza la bandiera americana in veranda e va a morire in Iraq, ma gli va benissimo il muro al confine per tenere fuori i latinos. E costoro andranno a votare chi, secondo voi?
Questo non è un post antiamericano; potremmo aprire un capitolo penoso sull’Italia e gli italiani, l’innamoramento di massa verso il Truce Salvini e la destra più bifolca e becera; abbiamo la nostra masnada di antivaccinisti che aspettano solo di poter fare casino, a settembre, contestando le misure (poche) anti Covid, abbiamo l’ex partito socialdemocratico che gode a fare la ruota di scorta del peggiore populismo fascistoide e gli intellettuali che si scannano pro o contro Armine (in generale pro, perché sono tutti politicamente mooolto corretti!), figuratevi il livello della nostra intellighentzia.
Quindi, in sintesi, tutto torna a quei due famosi punti che dichiarano, inequivocabilmente, l’esistenza solo simulata, formale, apparente della democrazia dove il popolo elegge con scienza e coscienza i suoi rappresentanti (i quali, da parte loro, faranno il meglio per il bene di quello stesso popolo).
C’è stato un tempo, sì, in cui questo sogno sembrava a portata di mano, direi il secondo dopoguerra fino a metà degli anni ’60. Le disuguaglianze erano molto meno marcate, il mondo era effettivamente molto più piccolo e (quasi) chiuso, c’era uno spirito democratico che traversava il popolo, e intellettuali di enorme spessore, e politici di gran vaglia, e occasioni a iosa. Com’è, come non è, le cose hanno poi preso velocemente una piega diversa, prima lentamente poi sempre più velocemente. Il mondo è esploso, le disuguaglianze hanno raggiunto livelli estremi, e una delle principali conseguenze è non potere capire, non potere discernere, non potere sapere. Si va, con proprie stereotipie, propri pre-concetti, propri cliché, proprie paure, a votare per qualcosa di sempre più astratto: i partiti sono senza programmi distinguibili, i leader politici sono sottili come fogli di carta… Le decisioni poi, quelle pesanti, dove e come vengono prese?
Noi ci ostiniamo a chiamarla ‘democrazia’ e a raccontarci – facendo il verso a Churchill – che è comunque il sistema migliore di tutti gli altri, pur con tutte le sue storture. Può essere vero; può essere il migliore rispetto a tutti gli altri; ma potrebbe fare un po’ schifo lo stesso.