Siamo alle strette. Mentre nelle grandi città serpeggiano la paura e il malcontento (a Napoli qualcosa di più del malcontento, con manifestazioni che peraltro lì sono sempre a rischio di manipolazione da parte della criminalità), il governo dà la chiara impressione di tentennare. Teoricamente, non dovrebbe essere così, perché quello che sta accadendo era ampiamente prevedibile e previsto da settimane, in base all’andamento dei principali parametri dell’epidemia; d’altra parte la debolezza politica, la povertà intellettuale e la scarsa autorevolezza del governo in generale e dei suoi ministri chiave in particolare spiegano abbondantemente come mai non ci sia oggi un piano già scritto e comunicato che dica che al verificarsi di determinati eventi si prendono determinate contromisure.
Non che manchino persone in grado di indicare le strade possibili: solo per citarne una, il professor Andrea Crisanti, che sappiamo aver svolto un ruolo determinante nel contenere l’epidemia in Veneto durante la prima fase, si esprime come suo solito molto chiaramente a proposito di quanto si doveva fare e non si è fatto, e a proposito di quanto si debba fare adesso. Crisanti fu consultato dal governo in estate, e aveva chiaramente detto che occorreva triplicare la capacità di eseguire tamponi per consentire di “ricostruire la catena di contagio e interromperla”. Oggi, Crisanti dice che è necessario inasprire per alcuni mesi le misure restrittive, senza arrivare a un vero e proprio lockdown, perché se non si interrompe la spirale crescente in cui ci troviamo non c’è politica sanitaria che possa reggere.
Cito Crisanti non solo e non tanto perché le sue parole mi sembrano attendibili, ma perché la sua vicenda è emblematica del rapporto tra politici e “tecnici” in Italia e, in particolare, in questo governo. Quando i politici sono sotto l’attenzione del pubblico a causa di qualche problema complesso, spesso incaricano dei “tecnici” di analizzare il problema e indicare le possibili soluzioni. Dopo di che, se la pressione dell’opinione pubblica è troppo forte, i politici sono tentati di scaricare la responsabilità sui tecnici e applicarne pedissequamente le raccomandazioni, ma appena questa pressione diventa meno incalzante, le opinioni dei tecnici vengono ignorate e il loro coinvolgimento si dimostra essere un alibi. I problemi complessi richiedono soluzioni complesse e spesso scomode, e la politica, specie la nostra, non ha la cultura per accettarle e applicarle. Ecco perché Crisanti è stato fondamentale quando si è trattato di togliere le castagne dal fuoco a Zaia, ma è stato ignorato dal governo in estate, quando l’attenzione al Covid si era allentata. Ed ecco perché il lavoro della “task force Colao” è stato buttato nell’immondizia senza neanche, ci scommetterei, che il Primo Ministro Conte lo abbia letto.
Ma lasciando da parte questa digressione, torniamo alla situazione e alle misure da prendere. La digressione però è utile a prendere atto che un governo come il nostro preferirà quasi certamente soluzioni semplici piuttosto che complesse, anche laddove quelle semplici siano inefficaci. Ci sono diverse misure che potrebbero essere adottate proprio in queste ore, e l’incertezza non fa che alimentare il malessere giustificato dei cittadini (e anche forme di protesta strumentali, ma questo è un altro problema).
1. Lo smart working: su questo, francamente, trovo che non sia lecito tergiversare. Tutte le aziende che ne hanno la possibilità (e nei mesi scorsi molte hanno avuto tempo e modo di attrezzarsi) devono adottare lo smart working al 100%: il governo deve imporlo (non semplicemente raccomandarlo) e deve verificare. Punto e basta.
2. Le scuole: ho già espresso chiaramente la mia opinione in merito in un articolo uscito due settimane fa qui su Hic Rhodus: è indispensabile chiudere subito le scuole superiori, e prendere in seria considerazione la chiusura delle scuole medie (nell’articolo io scrivevo di chiudere anche quelle; diversi lettori mi hanno fatto delle obiezioni serie, e diciamo che la questione va studiata). Ebbene, queste due settimane in cui si è rifiutato di chiudere le scuole sono un danno enorme, frutto di una scelta tutta di principio, che considero ai limiti del criminale. Le scuole aperte sono davvero un moltiplicatore dei focolai di contagio? Dai resoconti dei media si dovrebbe ritenere che sia il ministro Azzolina a opporsi alla chiusura delle scuole, e la stessa Azzolina sostiene che i dati sui focolai in ambiente scolastico «sono positivi (sic)». La realtà è che i dati sui focolai in ambiente scolastico non esistono perché non vengono cercati, che quelli che propaganda la Azzolina sono metodologicamente impresentabili, e che il MIUR ha scientemente evitato di raccogliere dati veri, perché poi i dati veri ti obbligano ad agire. Tanto per dire, a New York e Los Angeles per la riapertura delle scuole è stato organizzato un programma di test su campioni piuttosto ampi di studenti, cosa che in Italia nessuno ha neanche proposto. Solo test di questo tipo potrebbero (avrebbero potuto) fornire dati almeno indicativi sulla diffusione del Covid in una popolazione così giovane da essere in larghissima maggioranza asintomatica anche quando positiva. In Francia, scuola e università sono la principale sede di focolai; e in Italia? In Italia, alla scuola vengono attribuiti solo il 3,5% dei focolai di contagio. Peccato che la stessa analisi affermi che l’81,7% dei focolai si verificherebbe in ambito familiare: grazie, e come ci arriva il virus in ambito familiare? È evidente che in Francia si fa quello che da noi non si vuole o non si sa fare, ossia si ricerca da dove il virus arriva nelle famiglie, e guardacaso secondo loro arriva dalle scuole. Mi ripeto: le scuole superiori, e secondo il mio umile parere anche le medie, vanno chiuse e attivata la didattica a distanza. Se voleva davvero tenerle aperte, quest’estate la Azzolina invece di baloccarsi a cavalcioni dei monobanchi a rotelle avrebbe dovuto lavorare. Ma quel tipo di lavoro è palesemente superiore alle sue risorse.
3. I luoghi di lavoro: semplicemente, non possiamo permetterci di chiuderli, neanche per frenare più drasticamente l’epidemia. Moltissimi si sono adeguati all’applicazione di misure precauzionali, distanziando le postazioni di lavoro, contingentando gli accessi, facendo utilizzare i dispositivi personali di protezione. Chi ha operato in questo modo, sostenendo anche dei costi e accettando comunque una riduzione della produttività, deve essere tutelato e riconosciuto. Quello che si può e si deve ancora chiedere è che gli orari di lavoro siano resi flessibili, per ridurre gli affollamenti “a monte” e “a valle” (nei trasporti pubblici, ma anche nei pubblici esercizi, nei supermercati, eccetera).
4. I trasporti: qui è difficile indicare misure “autonome”, perché l’affollamento sui trasporti è determinato dalle politiche che si applicano in tutti gli altri settori. Aprire le scuole, per di più senza doppi turni, e poi meravigliarsi dell’affollamento dei mezzi pubblici è come mangiare profiteroles tutti i giorni e poi lamentarsi di quanto sono stretti i pantaloni. Un’iniziativa come quella della Regione Emilia-Romagna per rendere noto il tasso di affollamento degli autobus serve a poco se non si sfalsano gli orari, o li si rende flessibili (v. punto precedente).
5. Bar e ristoranti: in questo settore, secondo me, il problema è puramente di efficienza economica e di controlli. Mi spiego: ritengo che questi esercizi possano stare aperti, ma solo a patto di applicare severe norme di precauzione (o meglio: le stesse norme che valgono dappertutto, solo che per questo tipo di locali sono più severe), che bisogni controllarli a tappeto (e intendo a tappeto), e che se non operano correttamente vadano chiusi senza se o ma. È possibilissimo (la ristorazione non è il mio settore) che a queste condizioni i ristoranti, e soprattutto i bar, non possano fare reddito; in questo caso, dovrebbero poter stare chiusi e ricevere delle sovvenzioni, secondo me.
6. Spostamenti: si parla di limitare gli spostamenti tra regioni. Fermo restando che per gli spostamenti deve volerci un buon motivo, l’efficacia di questa specifica misura mi lascia dubbioso. Non siamo nella situazione di marzo scorso, in cui in fondo l’epidemia era geograficamente limitata, e impedire spostamenti a lungo raggio permetteva di evitarne la diffusione. Oggi la situazione è purtroppo grave in tutta Italia, e mi aspetto che impedire gli spostamenti interregionali abbia lo stesso effetto, più o meno, che impedire altre occasioni di contatto tra persone non coabitanti.
In conclusione, chiudiamo tutto? Secondo me, assolutamente no. Lo dico con chiarezza, sia pure dalla posizione di chi non dispone di tutte le informazioni e di tutte le conoscenze necessarie: il lockdown totale è la soluzione dei politici deboli e degli “sceriffi”, ossia di chi non ha la capacità, l’intelligenza, il coraggio e la forza di imporre delle misure mirate, che sarebbero comunque rigorose e dolorose, ma che riconoscerebbero le differenze sia tra un settore e l’altro, sia tra un operatore e l’altro di un dato settore. Essere deboli era lecito a marzo, perché siamo tutti stati colti alla sprovvista e spendere tempo a ragionare e analizzare avrebbe significato lasciare all’epidemia il tempo per continuare a crescere esponenzialmente e a provocare una strage; oggi non è più lecito. Intendiamoci, come ho scritto diverse volte, la situazione è gravissima: le misure prese dal governo finora sono a mio avviso sia insufficienti che mal dirette, e dimostrano, paradossalmente (viste le ricorrenti accuse di “dittatura sanitaria”), un’insufficiente determinazione. In questa situazione, il governo non deve “raccomandare”, “consigliare”, “invitare”: il governo deve imporre e sanzionare. I controlli, capillari e rigorosi, hanno senso solo in presenza di norme chiare e vincolanti, che proprio perché chiare facciano capire a tutti cosa e come si può fare. E proprio perché deve imporre e sanzionare, il governo deve adottare le misure necessarie e non un congelamento indistinto di tutto e tutti. Oggi non si può pensare solo alla limitazione di contagi e vittime, come a marzo, ma anche e soprattutto all’economia, che peraltro si difende anche limitando contagi e vittime. Le attività produttive devono continuare. Altre priorità non ce ne possono essere: di attività ricreative e sociali ne sono state fatte fin troppe tra luglio e agosto.
Infine: c’è anche chi pensa che si potrebbe non chiudere proprio nulla. Personalmente penso che sbagli, ma per rendere giustizia a queste posizioni ci vorrebbe un altro articolo, che forse scriveremo, se non sarà stato superato degli eventi.