Chiudiamo i ristoranti per timore dei contagi.
Quelle famiglie non lavorano; non solo il titolare, ma anche i suoi dipendenti.
Chi gli forniva il cibo, chi quel cibo produceva, chi lo impacchettava e chi glie lo portava, non lavora.
Chi forniva ai produttori di cibo le materie necessarie (concimi nel caso di prodotti dell’orto, foraggi nel caso di carni…) non lavora (o molto meno).
Gli alberghi senza ristorante interno, non lavorano (dove vai in albergo se poi alla sera non puoi andare a cena da qualche parte?). Anche qui sono varie famiglie, non solo quella dell’albergatore, con tutto l’indotto.
I tassisti che portavano la gente in albergo lavorano meno.
Con meno gente che si muove perché non ha alloggi e ristorazioni adeguate, chi può farà smart working, chi può rinvierà gli impegni, chi può adotterà soluzioni di emergenza, ma la conclusione sarà che ci sarà meno gente in giro anche a prendere un caffè (bar) a comperare le sigarette (tabaccai), a comperare il giornale (edicole) e via discorrendo.
In una parola: il problema non riguarda i ristoranti, ma una molteplicità enorme di soggetti, una serie concatenata di interessi, interazioni, collegamenti che come i cerchi concentrici nell’acqua si espandono…
Chiudiamo i cinema e teatri per timore dei contagi.
Quelle famiglie non lavorano; non solo il titolare, ma anche i suoi dipendenti.
Chi forniva le luci, gli attrezzisti, fonici, truccatori, costumisti nel caso dei teatri; maschere, bigliettai, proiezionisti nel caso dei cinema. E poi addetti alle pulizie, ai trasporti, all’amministrazione…
I film già prodotti non verranno proiettati, con enorme perdita per chi ha investito soldi nella produzione. In queste condizioni i progetti cinematografici resteranno nei cassetti dei produttori, e quindi altri attori, registi, addetti vari non lavoreranno, né i catering che portavano loro i pranzi, né gli autisti che recavano gli attori sulla scena né una quantità di altre figure professionali che si muovono nell’indotto della realizzazione dell’opera cinematografica. E molto di simile riguarda il teatro, ovviamente.
Poiché, in assenza di vaccino, l’unica cosa che si può fare è rimanere a distanza di sicurezza, con mascherina (e lavarsi le mani, e poco più), il ragionamento facile facile, ora che sono scappati i buoi dopo mesi di totale assenza progettuale governativa, è: teniamo la gente forzatamente distante; obblighiamola a stare distante. E guardate che sono d’accordo anch’io, perché so bene che una piccola minoranza decerebrata continua a infischiarsene. Quindi: individuiamo i luoghi dove la gente tende ad ammassarsi, e lì colpiamo.
Accade però che i veri luoghi dell’ammucchiamento restano per varie ragioni intoccabili (per incapacità a prendere decisioni rapide e sensate): i trasporti pubblici, per esempio (e sì che la soluzione c’era, ed era stata implorata a gran voce dal presidente dell’Agens). Le scuole certamente (inclusi ovviamente i luoghi limitrofi, dove i familiari degli alunni più piccoli stazionano assembrati). Certi luoghi di lavoro, probabilmente la maggioranza. E poi, certo, anche la cosiddetta movida, che si è forse limitata con la chiusura dei bar alle 18.00 (che è un’altra cosa stupida) in mancanza di fantasia per soluzioni diverse. E poi certe attività sportive poco tutelate sotto il profilo dell’igiene e dove c’è molto contatto fisico. Ma questi ultimi esempi non rappresentano gli elementi cruciali e portanti della diffusione del virus. Come non sono rappresentativi i ristoranti o i cinema, salvo casi assolutamente eclatanti (come i battesimi di massa in ristoranti della Campania, è cronaca di questi giorni) dovuti all’insensatezza di gestori e partecipanti.
Come ho spiegato l’altro ieri, ho fatto una piccola esperienza di ristorazione capitolina, e ho visto rigore e pulizia; termoscanner e tracciamento; distanziamento e boccette di gel sanificante. Tutto è possibile, sono ben consapevole che resta comunque un margine di rischio: forse il metro, metro e mezzo di distanza dall’altro tavolo non è sufficiente; forse, andando in bagno, sfioro un positivo; certamente tocco superfici che potrebbero non essere state sanificate in modo ottimale. Certo, c’è un rischio. Minimo. Incomparabilmente minore di quello che affronterei andando in metropolitana o su un autobus all’ora di punta. Minore di quello che prendo al lavoro, dove la promiscuità è indubbiamente maggiore e la sanificazione forse meno estesa e rigorosa.
Questo governo di inetti non ha contezza della complessità sociale e, assieme, ha una paura folle della propria ombra. La paura lo porta a prendere decisioni tiepide, inadeguate, sempre all’inseguimento del virus; l’incompetenza comporta poi che quelle misure timide e quasi casuali abbiano risvolti non compresi, non immaginati, non anticipati, come abbiamo mostrato nel caso dei ristoranti e dei cinema e teatri. All’imperizia si aggiungono i problemi successivi, collegati, perché la complessità sociale è come un domino: fai cadere una tessera da una parte e via, ne cascano altre decine, a catena. Ogni decisione non riguarda mai solo i destinatari diretti, ma molteplici indiretti, come abbiamo visto: e inseguire i problemi comporta correre ai ripari per sanare i guasti delle decisioni prese. Una gran massa di persone, impedite ora nel loro lavoro, verranno gratificate (sono sarcastico) da contributi economici (il “decreto ristori” varato ieri) recuperati grattando il fondo del barile. E sapete già cosa succederà, vero? Che un bel po’ di gente non lo riceverà, che qualcuno lo riceverà indebitamente, che in molti casi sarà inadeguato e che si tratterà, comunque, di una vergognosa elemosina, perché un esercizio pubblico non è solo un modo per guadagnare euro vendendo cibo, come un distributore automatico di preservativi; un ristorante è nome, marchio, piatti peculiari, cortesia, accoglienza, professionalità, tutti elementi fragili che scemano col tempo, perché alcuni addetti cercheranno altri impieghi, perché la gente dimenticherà… E per quanto riguarda i cinema e i teatri, non sono una specie di televisione, solo un po’ più grande: sono cultura, pensiero, libertà, creatività, arte e passione, sono emozioni che costituiscono parte fondamentale di una “dieta” umana non abbassata all’insignificanza, e la chiusura, anche qui, significa perdere per sempre parte del già esiguo pubblico. Queste chiusure sono capitale sociale dissipato. E il capitale sociale impiega moltissimo tempo per ricostituirsi, ed è il valore aggiunto di un Paese. Da noi già storicamente fragile.