Vecchietti sotto chiave?

In questi giorni, mentre all’interno del governo e tra governo e Regioni si discutevano febbrilmente le misure per il “quasi-lockdown”, sui media si è aperto un dibattito un po’ caotico su una specifica eventualità: quella di imporre (non solo raccomandare) delle misure più restrittive per una specifica categoria di italiani, ossia gli anziani. L’argomentazione base è semplice: dato che gli anziani sono i più vulnerabili al Covid, e che tutti i cittadini sono soggetti a obblighi e restrizioni che in larga misura proteggono i più vulnerabili, allora i primi a dover evitare i contatti sono proprio gli anziani, e, in un’ipotesi estrema, se si potessero “isolare” gli anziani si potrebbe evitare di imporre limitazioni a tutti gli altri.

Questo “ragionamento” ha assunto forme assai diverse, a partire dalla definizione di ‘anziano’. Si va dal limite dei 50 anni proposto da Andrea Ichino, Carlo Favero e Aldo Rustichini, ai 55 anni della simulazione elaborata da Pietro Terna, ai 75 della maldestra uscita del Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. D’altronde, ai fini che ci interessano, più che l’età in sé e per sé conta la vulnerabilità agli effetti del Covid-19, il che vuol dire che oltre all’età andrebbero tenuti in considerazione anche altri fattori di rischio, a partire dalla presenza di altre patologie. Ma semplifichiamo, e ragioniamo come se il fattore di rischio fosse solo l’età.

Quello che queste proposte hanno in comune è un’argomentazione che più o meno equivale a “visto che a sviluppare forme gravi (o a morire) di Covid sono praticamente solo coloro che hanno più di tot anni, anziché mettere in lockdown tutti mettiamo in lockdown solo loro”. Logico, no? Secondo diversi commentatori, in realtà no. Molti infatti hanno reagito a quest’idea con obiezioni di principio, osservando ad esempio che imporre restrizioni della libertà personale a una specifica categoria di persone sarebbe incostituzionale, o accusando i proponenti di essere segregazionisti. Dall’altra parte, c’è stato chi ha commentato che più che imporre restrizioni agli anziani si potrebbero offrire loro dei servizi, come la spesa a domicilio o fasce orarie “protette”, per consentire loro di ridurre al minimo i contatti con i “giovani”.

Ora, io francamente in una situazione come quella che viviamo di obiezioni di principio non ne ammetto. Se una malattia ha un impatto asimmetrico, le misure per combatterla possono benissimo essere asimmetriche; a patto che siano praticabili ed efficaci. Chiudere in casa tutti è sicuramente peggio che chiudere in casa qualcuno, specie se quel qualcuno è chi stiamo cercando di proteggere chiudendo in casa anche gli altri. Tuttavia anche questa è un’affermazione di principio, che è altrettanto inutile delle obiezioni di principio; la domanda quindi è: l’idea del lockdown per i nonni è realistica? Si basa su un progetto concreto? Può funzionare? E come?

Proviamo a prendere in esame una di queste proposte, quella di Pietro Terna. In sintesi, essa ipotizza di non attuare lockdown generalizzati e di mantenere aperte tutte le attività produttive, escludendo però da esse gli ultracinquantacinquenni e le altre persone vulnerabili, sostituendoli con «lavoratori temporanei» e mettendoli in una sorta di aspettativa pagata, isolando quindi a casa le persone a rischio di ammalarsi seriamente. È un’ipotesi percorribile? Diamo un’occhiata a qualche numero.

Partiamo da un dato di fatto: in Italia le persone “a rischio”, secondo la definizione di Terna, sono un numero enorme. Guardiamo la tabella qui sotto:

Fonte: tuttitalia.it

Anche ignorando tutti coloro che, pur non essendo “anziani”, sono da considerare a rischio, le persone che dovrebbero essere poste in lockdown “selettivo” sarebbero 22 milioni, più di una persona su tre. Siamo ben lontani, insomma, dallo scenario dei nonni che restano a casa anziché andare a giocare a bocce, o a scopone al bar. Milioni di queste persone lavorano, e pensare di sostituirle con lavoratori temporanei è francamente assurdo. Gli ultracinquantacinquenni che lavorano non sono solo, né prevalentemente, lavoratori poco qualificati che possano essere sostituiti da giovani disoccupati senza esperienza: sono imprenditori, manager, capi d’azienda, primari ospedalieri, professionisti di vertice. Senza gli ultracinquantacinquenni, insomma, l’economia si ferma; quanto alla scuola, l’età media degli insegnanti di ogni ordine e grado supera i 50 anni, e l’età media dei dirigenti scolastici è 55,6 anni: senza gli ultracinquantacinquenni, la scuola chiude.

Dimentichiamo quindi la velleità di mettere in “vacanza” 22 milioni di italiani senza bloccare l’economia. Si può invece pensare di isolare solo, poniamo, gli ultrasessantacinquenni, che in grande maggioranza non lavorano? Qui ovviamente gli impatti sulle attività produttive non sarebbero massicci; dobbiamo comunque tener presente che questi “anziani” sono comunque quasi 13 milioni e ottocentomila persone, quasi il 23% della popolazione: sempre moltissimi, un numero che non si gestisce certo alloggiandoli in qualche albergo vuoto. Per quanto posso giudicare, peraltro, il difetto di molte delle ipotesi che ho citato è presumere che gli anziani incontrino il virus uscendo da casa, mentre è assai più verosimile che molti di loro entrino in contatto con esso restando in casa. I due terzi dei giovani tra i 18 e i 34 anni (quindi con genitori di età prossima o superiore a quelle “a rischio”) vivono con i genitori, e anche le persone più anziane hanno legami fortissimi con i familiari più giovani. Secondo una ricerca dell’Istat, il 20,9% degli ultrasettantacinquenni vive con i figli, e anche tra quelli che vivono da soli oltre la metà vede i figli tutti i giorni (non parliamo poi dei nonni baby-sitter). A minacciare i nostri anziani non sono solo le uscite, ma anche, se non soprattutto, le relazioni familiari e domestiche; molti anziani poi non sono pienamente autosufficienti (il 22% degli ultrasettantacinquenni), e quindi devono necessariamente ricorrere all’aiuto di familiari o badanti, e quanto chi fornisce assistenza agli anziani possa in realtà costituire un veicolo di contagio lo ha dimostrato drammaticamente quanto è accaduto nelle case di riposo durante il primo lockdown. Permettere la libera diffusione del virus tra le persone al di sotto dei 65 anni avrebbe insomma due effetti entrambi probabilmente fatali: provocherebbe un altissimo numero di ammalati tra i “non anziani”, tale da sopraffare comunque il nostro Sistema Sanitario Nazionale, con conseguenze pesantissime; e finirebbe in ogni caso per far ammalare anche gli anziani, a causa degli inevitabili contatti con persone portatrici del virus, che in quello scenario sarebbero molto più numerose di quanto non siano oggi. Semplicemente, non funziona; a conclusioni simili arriva un articolo ben documentato che potete leggere sul Post.

Dunque è inutile parlare di misure specifiche per gli anziani? Secondo me, no: la specificità della minaccia che il Covid rappresenta per le persone in età avanzata è tale da non poter essere ignorata. Credo che misure mirate, sia “positive” (servizi) che “negative” (limitazioni) possano essere efficaci, ma non risolutive, e quindi, in particolare, che la loro adozione non consentirebbe di evitare che anche a tutti gli altri cittadini si debbano applicare delle restrizioni. Soluzioni per proteggere meglio gli anziani possono essere utili, a patto di non pretendere di considerarle un’alternativa alle altre misure cautelative, bensì una loro integrazione.

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