Non c’è nulla di più pratico di una buona teoria (Kurt Lewin, Problems of research in social psychology, 1951)
Nei dettagli si nasconde il diavolo, e nelle notiziole di costume, quelle che non hanno la prima pagina ma attraggono il lettore annoiato ecco, in quelle si celano i marchi e i segni del Male. Qui su Hic Rhodus abbiamo aperto da tempo la caccia contro la political correctness che a noi sembra oltremodo stupida in una sensibile maggioranza di casi, e un filo fascista. La correttezza politica si fonda, infatti, su dei valori morali definiti unilateralmente superiori, e in virtù di ciò condanna, censura, pensieri e idee altrui, comportamenti, prodotti letterari, fino alla follia dell’abbattimento di statue di persone del passato ree (a dire dei demolitori) di nefandi delitti.
Se dire “negro” a una persona di colore ha assunto storicamente un connotato dispregiativo, e quindi non posso apostrofare un africano con un “Ehi tu, negro!”, salvo volere la rissa, non posso pretendere di purgare tutti i testi letterari del passato in cui autori e autrici di ogni sorta, premi Nobel inclusi, utilizzavano ‘negro’ in un contesto neutro e senza alcuna implicazione razziale. E’ il lettore che, minimamente acculturato, sa che cinquant’anni fa (anche molti meno) si usava ‘negro’ per “persona di origini africane” esattamente come ‘bianco’ per “caucasico” e ‘giallo’ per asiatico (invece “muso giallo” era anche all’epoca dispregiativo, ma insomma, non dovrò scrivere un breviario su questo, no?).
Oggi è il turno di un vecchio e stupido film, Grease, del 1978, giudicato sessista e omofobo e istigatore di stupri da un pubblico di teenager britannici dopo averlo visto in TV; riporto come scrive la cronista della Stampa, Raffaella Silipo, che si mostra alquanto compiaciuta per questa presa di coscienza dei giovani extracomunitari:
Ci voleva la generazione Z per dichiarare guerra a Grease. Dopo averlo visto sulla Bbc il giorno di Santo Stefano – i dirigenti della rete britannica erano probabilmente convinti di aver fatto una scelta innocua – i teenager, con l’intransigenza tipica dell’età, hanno sommerso Twitter di critiche, etichettandolo come «sessista» e «misogino» – una scena per tutte, quella (indifendibile) in cui Putzie, uno degli amici di Danny, si sdraia sul pavimento per guardare sotto le gonne di due studentesse – e «omofobo» quando l’annunciatore radiofonico Vince Fontaine vieta ai ballerini di formare coppie dello stesso sesso. Per qualcuno è persino «rapey», ossia incita allo stupro, quando nella sopracitata Summer Nights, Danny descrive la scena di seduzione con Sandy e il coro chiede più o meno «Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?» («Tell me more, tell me more, did she put up a fight?»). Quella che soprattutto oggi è impossibile da digerire è la trasformazione di Sandy per compiacere Danny. «È solo un film – cerca da sempre di conciliare la «boomer» Olivia Newton John – in fondo anche lui è disposto a cambiare per amore». Ma date retta ai ragazzini, ben più smagati delle Pink Ladies: non è mai «solo» un film. E quelli che oggi sta bocciando la Generazione Z, siamo noi.
Raffaella Silipo è nientemeno che capo servizio spettacoli presso La Stampa (traggo da LinkedIn, quindi l’ha scritto al maschile lei, non prendetevela con me) e quando uscì Grease aveva 14 anni e probabilmente non era sfiorata dai possenti movimenti politici e culturali che attraversavano, e a volte insanguinavano l’Italia. Immagino che avrà visto il film anni dopo, fuori contesto, e probabilmente (ma qui lavoro di fantasia) semplicemente non le piacque – come non è minimamente piaciuto a me – e questa ricostruzione “politicamente corretta” le sovviene solo oggi che teenager indottrinati soffiano sul fumo del pensiero omologato.
Perché affermo, così categoricamente, che quei teenager siano indottrinati? Cosa posso saperne, in fondo? Lo affermo perché utilizzo delle teorie, che sono i più potenti strumenti pratici che esistono, se solo le si possiede. Le teorie di cui disponiamo, io e i miei lettori, se lo vorranno, riguardano la psicologia degli adolescenti (che è la traduzione di teenager, l’età dei teen, thirteen, fourteen, fifteen…), la rivoluzione ormonale in quell’età, il tipo di educazione formale che possono avere avuto (se gli è andata di lusso: elementari e ciclo di istruzione secondario, che in UK arriva ai 16 anni), le esperienze che possono avere fatto (mamma, porridge, televisione, un po’ di PornHub di notte fra le lenzuola e poco più; forse qualche spinello per i più grandi ma raramente – a quell’età – esperienze di viaggio, di lettura, di incontri e relazioni significativi dal punto di vista dello sviluppo intellettuale). Il fatto che si siano scatenati sui social non testimonia affatto della loro maturità politica, in questo particolare caso in relazione ai rapporti di genere, ma testimonia potentemente la capacità di Twitter e Facebook e altri social media di catalizzare opinioni estreme, farle diventare massa, e quindi urlo di quella massa.
E se poi, poniamo il caso, mi poteste illustrare con dati alla mano che gli adolescenti britannici sono tutti emancipatissimi, tanti Greti e Grete Thunberg politicamente attenti, istruiti, genuinamente sensibili, per nulla subornati dagli adulti circostanti, allora vi riproporrei la critica fondamentale già apparsa su questo blog, ovvero: le critiche artistiche, letterarie e cinematografiche, le stesse vite degli uomini e donne del passato, vanno interpretate alla luce delle loro epoche.
Vi faccio un esempio autobiografico. Nel 1968 uscì il film diretto, interpretato e prodotto da John Wayne, Berretti verdi, filmaccio di propaganda che voleva far passare la guerra del Vietnam come qualcosa di eroico e le forze speciali USA – con quel soprannome – come benefattori del popolo asiatico. Io ricordo l’anno dopo (in provincia i film arrivavano in ritardo) la proiezione della pellicola nella sala gestita da mio padre con affollatissimo dibattito finale, un dibattito infuocato data l’epoca, ma nel bene e nel male contestuale, coevo, momento di confronto sui temi dell’epoca letti – attraverso opposte ideologie – nella stessa epoca. Probabilmente, archiviata la guerra del Vietnam come cosa orrenda e sporca, rivedere oggi quel film ci annoierebbe semplicemente, perché il film – per come ricordo – era veramente orrendo.
Anche Grease era un brutto film, tipico prodotto commerciale che ha fruttato un sacco di soldi ai produttori e che oggi non rivedrei assolutamente, come decine di altri. Era sessista? Ma certo, diamine! Oggi definiamo ‘sessisti’ quei comportamenti che apparivano piuttosto normali ed erano quasi universalmente diffusi. Era omofobo? Può darsi! All’epoca le battute si sprecavano, e non già sugli omosessuali ma proprio sui finocchi, che era assolutamente normale chiamarli così nella gran massa della popolazione.
Ma mi volete dire il senso di fare questo putiferio perché giovanotti poco colti, con scarso senso della storia, hanno bollato come sessista Grease? Per carità, non fate loro leggere Hemingway, impeditegli di vedere i film di Kubrick, non fategli ascoltare la musica trap… Come dite? Già l’ascoltano? E non hanno nulla da dire?
A me dei flame su Twitter di questi ragazzi non importerebbe un fico secco, ve lo dico francamente, se non fosse per il fatto che giornalisti senza teorie ne trovano materia per sostenere le proprie ideologie, i propri convincimenti a priori, contribuendo a indirizzare e manipolare l’opinione pubblica. Questo è il Male. Raffaella Silipo è certamente una brava giornalista – secondo gli standard italiani – per avere un ruolo così importante in un prestigioso quotidiano ma, come una larga parte dei suoi colleghi, aggancia irriflessivamente fatti a propri pregiudizi, adattando i primi ai secondi. Con scarsa o nulla sensibilità sociologica arraffano pezzetti di spazzatura dalla grande confusione cacofonica contemporanea, e ne ricavano degli insegnamenti moralistici. Pochi lettori se ne accorgono e, per esempio in questo caso, sono portati a capire che Grease è una cattiva azione ma dei bravi boy scout albionici se ne sono fortunatamente accorti.
E questa è manipolazione.