“Pagateli di più” è il nuovo “date loro le mie brioches”

Ormai il mese di giugno è iniziato, e da un paio d’anni c’è un nuovo tormentone estivo che tiene banco nel cosiddetto dibattito pubblico italiano: il Reddito di Cittadinanza è un regalo ai fannulloni che preferiscono stare sul divano anziché fare i camerieri/bagnini/baristi stagionali? Oppure è un grandioso strumento di giustizia sociale, in grado di falcidiare i lavoracci (quelli che gli anglofoni definirebbero bullshit jobs) e soprattutto i relativi salari da fame?

Iconici interpreti di questo dibattito sono stati Maurizio Landini e Daniela Santanché, in un talk show televisivo di qualche giorno fa. Se da una parte tutte le Santanché d’Italia lamentano una certa difficoltà nel reperire lavoratori stagionali e incolpano il Reddito di Cittadinanza, dall’altra i Landini d’Italia non negano affatto che certe persone possano preferire il sussidio a certi lavoracci precari e pagati malissimo; semplicemente, ritengono che dare ai disoccupati la possibilità di rifiutare quei lavori sia giusto, e anzi – dal loro punto di vista – addirittura proficuo, perché ciò potrebbe spingere al rialzo i salari stessi. “Pagateli di più e vedrete che verranno a lavorare” è in sostanza il messaggio di Landini.

Ora, mi pare che poche situazioni illustrino meglio di questa l’incapacità della classe dirigente italica di affrontare quella complessità di cui tanto si è parlato in questo sito. Pensare che l’avidità degli imprenditori sia l’unica ragione per cui i lavoratori stagionali hanno bassi salari significa avere una visione del mondo parecchio semplicistica; il che ovviamente non significa che non esistano imprenditori disonesti, evasori, sfruttatori etc.

Intanto, una prima e quasi lapalissiana considerazione da fare è che il salario che un ristoratore/albergatore può corrispondere ai propri dipendenti dipende dalla quantità di clienti che riesce ad attrarre. Retribuzioni da 1400€/mese semplicemente non sono possibili, in mancanza di sufficiente clientela.

A questo si aggiunge poi l’annosa questione del costo del lavoro, che nel nostro Paese è più alto rispetto alla media europea, cosa che ovviamente contribuisce alimentare la piaga del lavoro nero.

E questo per menzionare solo due dei problemi che impediscono alla percentuale complessiva di occupati di arrivare al 60%. Ma, già che ci siamo, vale la pena menzionarne anche altri, di questi problemi, di cui si trova traccia solo in qualche sparuto e poco seguito blog o canale YouTube.

Piccolo non è bello

Un curioso paradosso nel dibattito sul lavoro (specie a sinistra) di questo Paese è che, mentre fioccano racconti dell’orrore sulla vita lavorativa di camerieri, impiegati, commessi etc. e si invita a seguire l’esempio di Sammontana, dall’altro si continua a idealizzare il tessuto produttivo italico, basato su una miriade di piccole e/o piccolissime imprese, dipinte come eroici baluardi all’avanzata delle multinazionali; peccato che sia proprio questa struttura la causa principale di pressoché tutti i mali fin qui descritti.

Come si può leggere in un recente documento della Banca d’Italia:

Il numero di microimprese con livelli di produttività modesti rimane estremamente elevato, mentre è ridotta la presenza di aziende medio-grandi, che pure hanno un’efficienza comparabile a quella delle maggiori economie a noi vicine. Nei servizi non finanziari le imprese con meno di 10 dipendenti impiegano quasi il 50 per cento degli addetti, il doppio che in Francia e Germania.La specializzazione in attività tradizionali e la piccola dimensione riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego che scoraggiano gli stessi investimenti in istruzione. Nonostante i progressi stimolati anche dalle politiche economiche, la spesa privata in ricerca e sviluppo resta molto più bassa di quella di Francia e Germania, nonché della media dei paesi avanzati.

Anche l’ISTAT giunge alle stesse conclusioni, in un censimento delle imprese italiane realizzato l’anno scorso: quello del costo del lavoro è un problema che pesa molto di più sulle piccole imprese che sulle grandi (vd. figura 6); per queste ultime l’ostacolo maggiore è il reperimento di personale qualificato.

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Il mismatch tra domanda e offerta

Altra annosa questione è quella della difficoltà di incrociare domanda e offerta di lavoro: non perché – come pensano Di Maio & Co. – manchino i software giusti o i Navigator, ma perché, semplicemente, spesso domanda e offerta non sono incrociabili. Oltre ai lavori che gli italiani non vogliono (più?) fare, ci sono quelli che non possono fare, per mancanza di competenze (come si accennava poche righe sopra). Sul come e perché si sia arrivati a ciò sono stati scritti fiumi d’inchiostro. In estrema sintesi si possono menzionare: l’allergia di una parte dei giovani italiani a scegliersi facoltà che offrano sbocchi professionali realistici, anziché lauree in materie umanistiche che non hanno mercato; l’alto tasso di abbandono scolastico; la diffusa convinzione che “studiare non serve”, convinzione in parte confermata – come abbiamo visto nel documento di Banca d’Italia – dall’effettiva tendenza delle (micro)imprese italiche a non puntare su innovazione, ricerca e sviluppo.

Come se ne potrebbe uscire

Tutto ciò che ho scritto finora non è frutto né di indagini personali né (più di tanto) di esperienze dirette; è semplicemente una serie di considerazioni che vengono ripetute da anni da svariati attori istituzionali e civili, che solitamente suggeriscono anche le possibili soluzioni ai suddetti problemi. Se tali soluzioni non vengono adottate è semplicemente per il grave difetto d’essere impopolari.

Intanto si dovrebbe ridurre il costo del lavoro a carico delle imprese, cercando di allinearlo alla media europea; ma per far ciò occorrerebbe prima tagliare la spesa pubblica improduttiva, anche perché l’alternativa – quella più amata dai politici italiani, cioè fare tutto in deficit – non è fortunatamente più un’opzione percorribile, grazie ai vincoli europei.
“E quale sarebbe la spesa pubblica improduttiva?” si domanderanno probabilmente a questo punto i lettori. Di sicuro non sanità, istruzione, ricerca e sviluppo: casomai sarebbe meglio disboscare quella miriade di tax expenditures elargite “non sempre” con criteri di giustizia. E magari anche una serie di fondi e incentivi.

E qui si arriva al punto più duro: lasciare che il mercato faccia il proprio mestiere, stabilendo chi vive e chi muore. E qui l’ostacolo è meramente ideologico: l’italiano medio parte dal presupposto che il mercato sia l’anti-democrazia per eccellenza, mentre lo Stat(alism)o il suo opposto. Credo non ci sia nulla di più ipocrita di questo modo di ragionare: se è lecito affermare – come di solito retoricamente si fa – che “lo Stato siamo tutti noi”, perché la stessa frase non dovrebbe essere riferita al mercato? Cos’altro è questo mitologico mercato, se non il risultato di milioni di scelte individuali, operate quotidianamente da persone non coordinate tra loro? Il successo della Ferrero è una decisione collettiva di milioni di persone ogni giorno; la sopravvivenza di Alitalia è il risultato di una decisione presa da qualche politico, verosimilmente in disaccordo col proprio elettorato.
Se accettassimo l’idea che il mercato non è il male assoluto, le imprese meglio organizzate, produttive e innovative non solo sopravviveranno, ma si ingrandiranno e assumeranno personale (per inciso: Amazon ha appena annunciato che assumerà altre 3000 persone in Italia nel 2021).

C’è chi pensa che un’eventuale decimazione delle piccole imprese (e relativo aumento delle medio-grandi) inciderebbe anche nella lotta all’evasione fiscale, assai più che la mitologica lotta al contante.

Infine, occorrerebbe una profondissima riforma della scuola. Magari un giorno troverò il tempo di scriverci un articolo qui su Hic Rhodus, ma temo che finirei per fare un mezzo copia-incolla da quanto scritto qui.

Cosa fanno di solito i governi italiani

In pratica l’opposto. Continuano a spendere soldi pubblici per tenere in vita aziende decotte e fallite, sbandierando questioni di orgoglio patriottico; e per far ciò mantengono alte le tasse sulle imprese produttive, che forse, con una tassazione più leggera, potrebbero assumere di più.
Inoltre continuano a fare la faccia feroce contro l’evasione fiscale, inventandosi lotterie degli scontrini e altre amenità del tutto inutili, salvo poi vedersi costretti a varare condoni fiscali ogni due anni, perché senza di essi migliaia di imprese fallirebbero.

Dulcis in fundo, il Reddito di Cittadinanza da cui siamo partiti. Sbandierata dai suoi ideatori non come una misura di mero assistenzialismo (giammai, signora mia!), ma come un primo passo per il reinserimento del beneficiario nel mondo del lavoro, a detta del presidente dell’INPS Pasquale Tridico (che pure è stato tra i suoi più fervidi sostenitori, al punto da affermare che la povertà si era ridotta del 60%), ha fatto trovare lavoro a solo il 3,63% dei percettori (i soliti gufi avevano previsto quest’esito con largo anticipo); il tutto, manco a dirlo, dopo aver speso milioni di euro di soldi pubblici per Navigator e mirabolanti software made in USA.