Io sono fra coloro che credono che le parole siano pietre, che contino, che il linguaggio significhi in un senso piuttosto profondo che sfugge, generalmente, anche alle persone che parlano, leggono, discutono e usano le parole con una scarsa consapevolezza del loro potere intrinseco. Il discorso linguistico sarebbe lungo e complesso, è già stato fatto anni fa su Hic Rhodus, fidatevi.
Le parole contano trasmettendo valori, inducendo immagini, plasmando credenze, e non solo mere informazioni strumentali; per questo, fra le altre conseguenze, sì, il linguaggio di genere è una questione rilevante, perché uno dei principali valori trasmessi dal linguaggio è quello relativo al potere, e un linguaggio maschile trasmette potere maschile e allontana l’accesso al potere femminile. Vi assicuro che non c’è nulla di femminista in questo: è teoria del linguaggio, è semiotica e pragmatica; poi ci sono femministe che – a mio avviso giustamente – conoscono e segnalano il problema e ne fanno una battaglia femminista che, a volte, diventa ridicola, come l’idea di usare la schwa (che è questo orrendo segno qui, Ə, da usare per “neutralizzare” le declinazioni di genere) o gli asterischi.
Ecco, lo confesso, io sono uno che usa gli asterischi, e nelle email di lavoro a gruppi misti di colleghi, scrivo cose come “Car* amic*…”. Sulla Repubblica dell’altro ieri lo scrittore Maurizio Maggiani si scaglia contro questo uso, ed esprime delle ragioni anche corrette.
Il problema, in sintesi, è semplicemente questo: la lingua italiana (e altre) è fortemente centrata sul genere, e deve accordare fra loro nomi, aggettivi, pronomi, participi. È così. Se poi vogliamo parlare dell’evoluzione millenaria di un linguaggio maschilista, accomodatevi voi, perché a me sembra sciocco in quanto inutile. Una lingua è un universo organico e coerente che esprime una complessità di valori, e la lingua italiana è una delle più ricche del pianeta sotto questo profilo. È comunque maschilista chi non tollera dei cambiamenti possibili, leciti e coerenti con la grammatica italiana.
Tutti i termini maschili hanno una declinazione femminile, usiamola: l’avvocato e l’avvocata, il notaio e la notaia, il postino e la postina; se osservate i nomi professionali in ambiti tradizionalmente femminili, o da tempo presenziati da donne (maestra, infermiera, dottoressa…) capiamo facilmente come la corretta declinazione al femminile sia ostacolata solo da resistenze culturali, a seguito di veloci evoluzioni sociali; quindi anche l’architetta, la soldatessa e soprattutto la presidente (attenzione: i nomi che derivano da un participio presente finiscono in -e e si usano per il maschile e il femminile usando l’articolo adeguato, il o la).
Il problema sarebbe bell’e risolto se non permanessero due questioni: 1) il genere come preteso, nel linguaggio, dalla comunità lgbt+ e 2) l’uso del genere quando si indicano gruppi misti.
La questione maschile/femminile nella grammatica italiana è facilmente risolvibile, come abbiamo visto sopra; ma se sei nato maschio e ti senti femmina? Se sei nata femmina e ti percepisci gender fluid? Qui si sovrappone un problema che non riguarda la grammatica, o l’anagrafe, ma la complessa fluidità socio-culturale contemporanea in materia di identità sessuale. Onestamente credo che un’eventuale soluzione sia da vedere, caso per caso, intendendo non solo il soggetto che avanza pretese linguistiche di un riconoscimento particolare, ma anche la circostanza in cui avviene il discorso. Se Platinette pretende il genere femminile quando esercita la sua professione di intrattenitrice televisiva, non vedo perché non accontentarla. Ma restano problemi insormontabili: i) io non devo necessariamente conoscere l’orientamento sessuale di ogni mio interlocutore, e baserò la declinazione in relazione a quello che appare, quello anagrafico, quello che a torto o ragione conosco; ii) in innumerevoli casi di interlocutori molteplici (ci tornerò a breve) devo trovare una formula mediana, onnicomprensiva; iii) in un contesto istituzionale si sovrappongono regole e consuetudini amministrative e burocratiche… Ci sono contesti dove la comunicazione è prettamente strumentale o l’obiettivo è capirsi, e l’identità di genere non c’entra un fico secco; altri contesti – solitamente individuali, dove fa premio la qualità della relazione – dove è indubbiamente giusto, nei limiti linguistici possibili, soddisfare la sensibilità dell’interlocutore/interlocutrice.
La questione dei gruppi misti (maschili e femminili) è notoriamente risolta, in italiano, declinando al maschile e, va bene, questo è un segno del potere maschile; ma tale segno, più che l’uso in sé (dopotutto abbiamo solo due declinazioni) riguarda il fatto che nei secoli non si sia sviluppata una declinazione terza, per esempio neutra, per i gruppi misti.
Quindi: in italiano se mi rivolgo a un gruppo di donne sono “Care amiche…”, ma se sono uomini e donne sono “Cari amici…”. Ecco allora la retorica degli “Uomini e donne”, “Cari amici e care amiche…”, “Gentili colleghi e colleghe”, che non costa alcuna fatica, ovviamente, finquando è un breve incipit, ma provate a scrivere una lunga email tecnica, di lavoro, scandendo continuamente la doppia declinazione. Diventa noioso. Ma ancora si può fare, e il problema appare in testi più lunghi e complessi.
In questo periodo ho in lavorazione alcuni volumi relativi al metodo della ricerca sociale e valutativa: mi trovo a dovere descrivere i comportamenti corretti (sotto il profilo del metodo e dell’efficacia della ricerca) di diversi attori sociali rilevanti (vedete? Ho usato il maschile, “attori”!), fra i quali i più importanti sono il/la ricercatore/ricercatrice (o, nel caso della ricerca valutativa, il/la valutatore/valutatrice), il/la committente della ricerca, suo staff, beneficiari etc. Comprendete che nelle 150/200 pagine a stampa non posso continuamente scrivere “il/la ricercatore/trice” e “il/la committente”. Io ho risolto così, con una nota:
Per non frastornare il lettore e la lettrice con un’eccessiva attenzione al linguaggio di genere, stabiliamo convenzionalmente che la committente sia sempre femminile, e presidiata da dirigenti e interlocutrici femminili e il ricercatore sempre maschile. Poiché si tratta di una convenzione per non esasperare la lettura, poteva essere l’esatto contrario. Gli Autori hanno deciso così in base al lancio di una moneta.
C’è un po’ di ironia, sì, ma nel volume citato noi abbiamo, dalla prima all’ultima pagina, IL ricercatore e LA committente. La lettura scorre fluida e – così credo, spero di non sbagliarmi – abbiamo dato a Cesare quel che è di Cesare e a Calpurnia ciò che le spetta.
Per chi volesse approfondire la questione raccomando Francesco Lepore, Cecilia Robustelli ci spiega perché non c’è nulla di offensivo a utilizzare il linguaggio di genere, Linkiesta, 9 ott 2020.