Prescrizione: la risposta al giustizialismo non può essere l’impunitismo

Chi segue abitualmente questo sito dovrebbe già aver presente cosa penso del giustizialismo manettaro dei 5 Stelle e di Travaglio: per chi invece capita qui per la prima volta, segnalo questo mio vecchio articolo per fugare ogni dubbio.

Che in Italia esista una concezione punitiva e vendicativa della giustizia mi pare palese, così come il fatto che essa sia largamente maggioritaria: ne sono certamente interpreti Lega, Fratelli d’Italia e M5S – che già da soli raccolgono assai più del 50% dei consensi degli italiani – ma si potrebbero aggiungere nel calderone anche i principali partiti della sinistra. Ciascuna delle due fazioni ha una visione ben chiara di chi sono i buoni e chi i cattivi nella società: per le destre sono cattivi gli immigrati (tutti, anche se nominalmente si sforzano di far credere di odiare solo gli irregolari), gli omosessuali, gli atei. Per la sinistra sono cattivi gli imprenditori, i maschi, i ricchi.
Naturale quindi che entrambe le fazioni abbiano reazioni opposte a seconda di quale parte dell’aula di tribunale occupano i loro beniamini: garantisti quando i “loro” sono imputati, colpevolisti inflessibili quando sono parti offese.

Ad ogni modo, non è di costoro che vorrei parlare oggi, ma di quei quattro gatti che non si collocano né nell’una né nell’altra parte, e che sul tema della giustizia si sono sempre autoproclamati “garantisti”. I quali, a mio modesto avviso, da sempre portano avanti una visione della giustizia che – per quanto possa essere animata da buone intenzioni – rischia di fare più danno che altro; soprattutto, una visione che non trova paralleli in pressoché nessun Paese occidentale, a cui pure costoro dicono di ispirarsi.

Il dibattito sulla prescrizione è l’esempio più lampante di questa situazione.

Nonostante ritenga Bonafede uno dei peggiori ministri della giustizia che questo Paese abbia mai avuto, e che lo stesso giudizio possa estendersi al partito donde proviene, non mi trovo d’accordo nemmeno con chi voleva eliminare tout court la riforma dell’ex Ministro grillino, negando l’esistenza di un problema (il numero di processi estinti per prescrizione) con un approccio da tifo calcistico più che da analisi politica.

La ragione principale è che, appunto, considero un problema l’alto numero di processi estinti per prescrizione. La giustizia in un Paese funziona quando i processi si iniziano e si concludono in tempi ragionevoli, possibilmente arrivando a sentenze giuste; viceversa, interrompere un procedimento in corso senza aver accertato la verità processuale, solo perché è passato troppo tempo, significa esser certi che almeno una delle due parti ha subito un torto: la vittima, se l’imputato era colpevole, o l’imputato stesso, se innocente (perché ha dovuto stare a lungo sotto processo senza motivo).

Che prima della riforma Bonafede l’Italia rappresentasse un’anomalia a livello internazionale dovrebbe essere ammesso: una buona sintesi di come funzioni la prescrizione all’estero la si può trovare qui. In generale, la ratio della prescrizione è che non ha senso che lo Stato continui ad impiegare risorse per perseguire reati commessi troppo tempo fa, in cui sia venuto meno l’interesse pubblico o di cui non si possono più rintracciare prove; per questo suona “un po’ strano” che si continui a far correre la prescrizione anche dopo che il processo è iniziato, con le prove già acquisite.
Ma soprattutto, avere un ordinamento in cui la prescrizione non si interrompe mai (come era prima della riforma Bonafede) significa, di fatto, la possibilità che vengano rimesse a piede libero persone condannate magari non una, ma due volte; se infatti un imputato viene condannato in primo grado e in appello, e la prescrizione interviene durante il terzo grado di giudizio, ci si trova esattamente in questo scenario. Che non è quello più frequente, ma non è neanche meramente teorico.

Altre questioni importanti le fece notare Axel Bisignano su NoisefromAmerika (non certo un sito filo-grillino), in un articolo pubblicato il 25 aprile 2020 e attualmente non più reperibile ma che trovate in pdf in fondo al presente post:

(…) vi sono dei distretti di corte d’appello dove reati che suscitano un certo allarme sociale, da quelli ambientali alle violazioni fiscali alle grandi truffe alla corruzione, tanto per fare degli esempi, si prescrivevano sistematicamente nella fase d’appello. Questo creava una duplice disparità di trattamento:

1) geografica, perché chi commetteva lo stesso reato in certe regioni ha una ragionevole probabilità e/o certezza di portare a casa la prescrizione, mentre chi lo commetteva in altre si ritroverà condannato.

2) sociale, perché la prescrizione interveniva molto spesso per reati commessi da colletti bianchi che dispongono delle risorse economiche per tirare in lungo il processo.

(…) Descritto così il sistema è evidente come esso crea(va) un circolo vizioso. Se tanti reati si prescrivono in appello, gli imputati saranno incentivati ad impugnare la sentenza di primo grado (e prima ancora di ciò a non patteggiare, tornerò più avanti sul punto), ma più sono le impugnazioni più le corti di secondo grado si intasano, più sono le prescrizioni e le probabilità di ottenere il risultato.

Quando si fa notare tutto ciò, la risposta che scatta in automatico – e che paradossalmente trova tutti d’accordo – è che il vero problema in Italia è la durata dei processi; la prescrizione sarebbe l’unico modo per evitare all’imputato il famoso fine processo mai”.

Vedo un grosso problema in questa argomentazione.
I fan della prescrizione, cioè coloro che più si stracciano le vesti per l’eccessiva durata dei processi, spesso sono anche coloro che bollano come “attentato al garantismo” qualsiasi proposta di riforma finalizzata a velocizzare i processi stessi, anche a costo di difendere delle anomalie che sono tutte italiche.

Ad esempio, già prima della pandemia del COVID-19 ferveva il dibattito sull’uso della tecnologia nella giustizia: una delle misure proposte da alcuni magistrati (tra cui il “famigerato” Gratteri) era di sentire i testimoni in video-conferenza. La reazione di avvocati e degli studiosi di diritto? Orrore! Solo la presenza fisica in aula dei testimoni può garantire un corretto esame incrociato: ci sono da valutare “le reazioni” e il “linguaggio non verbale”, e a quanto pare secondo costoro ciò non sarebbe possibile attraverso un freddo monitor.

Per non parlare del caso più clamoroso, cioè il fatto che da noi i gradi di giudizio per arrivare a sentenza definitiva sono tre: Caselli propose di abolire l’appello, e i garantisti all’italiana parlarono di “fantasie giustizialiste”, facendo notare che, se è vero che nei Paesi con sistemi giudiziari di tipo accusatorio non è previsto il processo d’appello, è anche vero che colà esiste la separazione delle carriere tra PM e giudici.

Occorre fare un passo indietro: cos’è questa storia dei tipi di sistemi giudiziari? In sintesi, esistono due modelli: quello accusatorio e quello inquisitorio. Anzi, per la precisione ne esiste un terzo: quello italiano, che come spesso accade è un mix pasticciato di modelli esteri, una sorta di spesa al supermercato in cui si prende solo ciò che piace anziché il pacchetto intero.
Nel già citato articolo di Bisignano trovate spiegato con precisione chirurgica come in Italia il legislatore abbia tentato, nel 1988, di passare dal sistema inquisitorio a quello accusatorio, e come questo tentativo abbia in realtà creato qualcosa che lo stesso autore definisce “botte piena e moglie ubriaca”. Ad esempio abbiamo mantenuto in ricorso in appello nel merito, incoerente col sistema accusatorio; abbiamo il divieto per gli avvocati di chiedere il patteggiamento se l’imputato è irreperibile, mentre negli USA il processo non inizia neanche, se l’imputato non si presenta almeno alla prima udienza. Aggiungo io che da noi è vietata la reformatio in peius se il ricorso lo fa l’imputato. Il risultato finale è stato un sistema in cui conveniva resistere in giudizio anche sapendo di essere colpevoli, perché a far ricorso non si rischiava nulla, e intanto il tempo passava e si avvicinava il momento fatidico della prescrizione.

Con tutto ciò, ribadisco, non sto dicendo che Bonafede abbia fatto un buon lavoro: aveva annunciato che la riforma della prescrizione sarebbe arrivata congiuntamente ad una complessiva riforma del processo penale, cosa che invece non è mai accaduta (i 5 Stelle incolpano di ciò Renzi, che ha fatto cadere il governo Conte 2 togliendo a Bonafede il tempo necessario per intervenire. Mi permetto di dubitare di questa ricostruzione).

Ora la riforma Cartabia ha modificato ulteriormente la prescrizione, mantenendo lo stop dopo il primo grado ma fissando dei limiti temporali per appello e Cassazione. L’auspicio è che, unitamente a tutto ciò, arrivino anche mezzi e strumenti adeguati per permettere a chi lavora nei tribunali di riuscire davvero ad arrivare a sentenza entro 2 anni (i soldi europei dovrebbero servire a questo, a quanto ho capito); altrimenti c’è il rischio che questa disposizione si trasformi nell’ennesimo, metaforico obbligo per gli zoppi di correre i 100 metri in 10 secondi. Da questo punto di vista fa riflettere l’appello lanciato alla Cartabia dal Presidente della Corte d’Appello di Napoli, che paventa l’impossibilità di giungere a sentenza in due anni stanti le attuali risorse.