Se qualcuno di voi ha seguito il nostro blog dai suoi inizi, forse sobbalzerà leggendo il titolo di questo articolo, e non avrà tutti i torti. In fondo, la mia intenzione nel cominciare l’avventura di Hic Rhodus (e l’intenzione di Claudio Bezzi non era certo molto diversa) era quella di proporre riflessioni e ragionamenti, di solito basati su dati, fatti, analisi; insomma, quello che facevo fatica a trovare nel panorama del giornalismo italiano, e non solo quello online, e che speravo potesse interessare un sia pure piccolo nucleo di pubblico raziocinante.
Che negli anni successivi questa ambizione sia o meno stata coronata da successo, non è cosa che sta a noi giudicare. Quello che però è certamente accaduto è che, e qui parlo soprattutto per me, la mia aspirazione a un’aurea obiettività è stata progressivamente erosa dai fatti. Quando in Italia (e nel resto del mondo le cose non sono poi così diverse) si affacciano al potere soggetti come Salvini o i pentastellati, è impossibile essere allo stesso tempo obiettivi ed equidistanti: se sei obiettivo, devi per forza prendere una posizione, e se vuoi mantenerti equidistante non puoi essere obiettivo. Di conseguenza, questo blog, e anche i miei articoli, in cui pure ho quasi sempre cercato di ridurre al minimo gli elementi arbitrariamente soggettivi, hanno preso più frequentemente una coloritura politica in senso lato, e inevitabilmente, perché non si può discutere sempre di composizione e armonia se ci si trova nella sala da ballo del Titanic.
Da qualche tempo, ahimè, un altro tema è comparso a costringerci, e costringermi, a delle prese di posizione potenzialmente controverse. Il conformismo del pensiero unico, contro cui Claudio Bezzi spara a zero fin dai primissimi giorni di Hic Rhodus, è diventato così asfissiante e aggressivo da non poter essere trattato come uno qualsiasi dei mali del nostro mondo. Mentre un tempo il conformismo era, come dire, frazionato in “parrocchie” ideologiche, ciascuna al servizio di una diversa e orgogliosamente distinta visione del mondo, di diverse priorità e, se vogliamo, di diversi interessi, oggi ci troviamo di fronte a un “pensiero acefalo”, la cui essenza è la ricerca dell’uniformità. La political correctness è diventata il vero tabù dei ventunesimo secolo, e violarla è diventato il crimine supremo. Senza, forse, che la maggioranza di noi se ne accorgesse, è diventato normale trovarsi ogni mattina a sparare a zero contro il “qualcuno” di turno che ha detto o fatto qualcosa di “cattivo”, attirando l’attenzione dei guardiani del web che campano, spesso lussuosamente, grazie appunto alla loro attività di bulli-censori, alla guida di armate di seguaci ai quali quotidianamente indicano il bersaglio da colpire.
Questo sarebbe già abbastanza sgradevole, ma purtroppo non è il peggio. La cosa peggiore è certamente il cortocircuito per cui la political correctness, oltre a costituire l’ideologia integralista che dicevo, si propone anche come modello per la legislazione. Il teorema che sottostà a una serie di prese di posizione che è facile riconoscere afferma sostanzialmente che se un comportamento è sbagliato deve essere vietato e sanzionato per legge, o in base a norme che non hanno valore di legge ma che sono ugualmente vincolanti in ambiti più ristretti (regolamenti di enti pubblici o privati, statuti, policy aziendali, eccetera). E dissentire da queste pretese può significare trovarsi improvvisamente a diventare un bersaglio a propria volta.
Si tratta infatti di uno dei più perversi e diffusi metodi di aggressione utilizzati dal bullismo dei “buoni di professione”: se non sei con me nel pretendere la punizione dei cattivi, vuol dire che sei cattivo anche tu. Se sei contrario a creare nuove leggi per castigare le violazioni della “morale”, vuol dire che “sotto sotto” (ossia, indipendentemente da quello che tu fai e dici in realtà) sei anche tu, a seconda dei casi, un fascista, un razzista, un omofobo, un molestatore di donne, un azzoppatore di animali, eccetera eccetera. Questo “ragionamento”, nonostante sia evidentemente diffamatorio e in malafede, attecchisce con grande facilità perché asseconda la tendenza al moralismo totalitario di cui abbiamo parlato in molti articoli.
Quindi ho deciso di prendere, una volta per tutte, una posizione chiara, peraltro coerente con tante nostre precedenti: tra i vari diritti civili che credo vadano tutelati, c’è anche quello a essere stronzi. Pur consapevole che in base al teorema di cui sopra questo equivale ad autodefinirmi stronzo, vorrei impavidamente spiegare perché la penso così.
Io ritengo che in uno Stato laico e liberale esistano due livelli distinti e legittimi di giudizio e sanzionamento del comportamento altrui. Il primo è quello che ha un valore universale (ossia per tutti i cittadini) e che si fonda sulla necessità di proteggere gli interessi legittimi e obiettivi dei cittadini stessi, insomma la Legge. La Legge non ha niente di intrinsecamente “morale”: non deriva da tavole di marmo scolpite sotto dettatura di una voce soprannaturale, né dall’esame introspettivo di un imperativo categorico: la Legge non stabilisce come ci si debba comportare per essere “buoni”, ma più prosaicamente cosa non si possa fare per evitare di provocare reciprocamente danni (non semplici esperienze spiacevoli) tra cittadini, soggetti di diritto, e consentirci, al contempo, di perseguire il più liberamente possibile il nostro personale modo di essere “buoni”, laddove per “buono”, in assenza di un criterio universale, intendo in modo assolutamente indifferenziato qualunque comportamento che io, nella mia visione squisitamente personale, consideri desiderabile per me. A livello giuridico non c’è spazio per filosofie morali, suscettibilità specifiche, gusti estetici, precetti religiosi. Se, poniamo, il signor X professasse una religione in base alla quale andare in giro con sandali e calzini fosse blasfemo, dovremmo dire al signor X che questo è un problema tutto suo, tanto quanto lo sarebbe se il tabù relativo all’uso dei calzini coi sandali anziché un fondamento religioso ne avesse uno puramente estetico. Le due cose, dal punto di vista civile, sono equivalenti.
Dal punto di vista di ciò che è legalmente rilevante, non esiste una distinzione tra precetti morali, religiosi, e semplici preferenze e gusti personali. Il fatto che io consideri auspicabile non bestemmiare, e che personalmente mi astenga dal farlo, è una mia questione privata, e il fatto che alla base ci sia una profonda fede religiosa o il disgusto per espressioni profane è socialmente irrilevante. Quale ne sia il motivo, questa mia preferenza non si qualifica come una ragione per introdurre una norma di legge (in uno Stato laico e liberale; nell’Italia del XX secolo le cose stavano diversamente), e quindi ricade nel secondo livello di regole di comportamento di cui parlavo sopra: quelle in base alle quali io stabilisco quali persone mi piacciano e quali no, quali io trovi gradevoli da frequentare e quali ributtanti, quali amabili e quali detestabili. Che io abbia simili criteri di giudizio è ovviamente legittimo e naturale; quello che è sbagliato e va combattuto radicalmente è la pretesa che essi, magari se condivisi da molti altri, possano diventare la base per un obbligo di legge.
Siamo invece nel privato ambito delle preferenze personali; e in questo ambito la sanzione che si applica verso chi si comporta “male” è una sanzione relazionale altrettanto personale: io eviterò i bestemmiatori, dirò apertamente che trovo il loro comportamento sgradevole e anche offensivo, cercherò attivamente la compagnia di chi non bestemmia. Estendendo il discorso, tra i giudizi che rientrano in questa categoria ci sono quelli che mi consentono di identificare qualcuno come uno stronzo.
Non tutti abbiamo ovviamente le stesse idee su come riconoscere uno stronzo. Peraltro, uno stronzo è spesso anche, ovviamente, qualcuno che commette un reato, uno che viola il livello legislativo del “buon comportamento” ed è, in quanto lo fa, soggetto a sanzioni legali. Tuttavia, è chiaro che quando noi di qualcuno diciamo “è proprio uno stronzo” non intendiamo dire che sia un ladro o un falsario: intendiamo qualcosa di legato al secondo livello di valutazione, ai nostri giudizi “morali”, che non hanno rilevanza giuridica ma che per noi sono almeno altrettanto vincolanti. Per me, uno che si comporta in modo arrogante, che deride un bambino o passa davanti a qualcuno in una coda, è uno stronzo; e fino a un certo tempo fa, la sanzione relazionale era considerata sufficiente. Io non frequenterò volentieri quella persona, magari dirò ai miei amici che quel tizio lì è uno stronzo, e questa forma di sanzione può avere una sua efficacia. Questa sanzione relazionale infatti è utile, perché tende a scoraggiare i comportamenti stronzi su base individuale, e se uno stronzo viene scoraggiato in questo modo abbastanza spesso, può darsi che moderi i suoi tratti sgradevoli.
O, forse, oggi non è più così. Sarà a causa dell’indebolirsi delle relazioni personali dirette, in un mondo che ci vede mantenere centinaia se non migliaia di legami deboli con persone che a stento riconosciamo di persona, ma evidentemente la sanzione relazionale ci sembra poca cosa, salvo quando viene amplificata dai fenomeni “di network” tipici dei Social e si trasforma in una shitstorm che travolge qualche malcapitato, una forma distorta e violentemente bullistica di un meccanismo che invece, se mantenuto a livello relazionale diretto, è socialmente utile e sano.
Ecco quindi che questa apparente inefficacia induce molti a confondere i livelli di cui ho parlato, e a pretendere che le proprie preferenze personali diventino materia di legge, o, in altri termini, ad attendersi che essere stronzi sia vietato dalla legge anziché “semplicemente” oggetto di privata disapprovazione.
Ebbene, io penso che questa aspettativa, e ovviamente quanto a essa si accompagna, sia foriera di danni sociali molto maggiori di quelli causati dall’esistenza degli stronzi. Essere stronzi è un diritto civile, purché lo stronzo sia preparato a subire la sanzione relazionale di cui ho parlato. Voler vietare ex lege la stronzaggine (e non solo i reati che alla stronzaggine possono essere correlati) è una perversione sostanzialmente totalitaria, che si fonda sull’idea che la propria morale sia universalizzabile, e che la libertà altrui debba essere limitata non quando confligge con i propri interessi fondamentali, ma anche quando semplicemente urta la propria sensibilità, che è sentita come talmente importante da dover essere tutelata da norme scolpite nella pietra anziché dal normale vaffa che a uno stronzo non si nega mai. Si tratta di un modo di pensare sbagliato, ma nel quale è facile cadere: quindi, quando pensiamo “questa cosa dovrebbe essere proibita dalla legge”, teniamo presente che quasi sempre abbiamo torto.