La guerra infinita degli USA e quei liberal italiani che vorrebbero farla propria

Sarò sincero: sono abbastanza spiazzato dai commenti che sto leggendo in questi giorni relativamente alla situazione in Afghanistan. Non tanto quelli relativi alla gestione del ritiro da parte di Biden; personalmente non so nulla di strategia militare, mi limito a prendere atto del fatto che nessuno – anche tra gli addetti ai lavori – ha giudicato positivamente la gestione della ritirata.

Mi riferisco, invece, ai commenti sul più vasto tema dell’esportabilità della democrazia, nonché del ruolo che l’Europa dovrebbe tenere in questo mondaccio da qui ai prossimi decenni. Il mondo liberal italiano sembra un coro unanime: la democrazia non solo si può, ma si deve esportare, signora mia, e se gli americani non sono più in grado di farlo beh, è giunta l’ora che subentri l’UE (del resto, parafrasando il Guzzanti Corrado dei tempi d’oro, chi sono questi americani? Gente che viveva ancora nei tepee mentre noi europei già si sterminavano gli Aztechi e gli Incas, talebani dell’epoca: in quanto a esportazione di civiltà abbiamo secoli d’esperienza in più).

Gianni Riotta spiega via Twitter che esportare democrazia è ciò che fecero gli USA nella Seconda Guerra Mondiale.

Riotta

Antonio Polito aggiunge che “Il relativismo culturale secondo cui non si possono esportare democrazia e diritti umani nasconde un sottile razzismo secondo cui certi popoli non ne sarebbero capaci“.

Ecco, in questo post vorrei fornire un punto di vista diverso: quello del Cato Institute, storico think-tank libertario d’oltreoceano nonché unico soggetto ad essersi schierato apertamente a favore della scelta di Biden (e del suo predecessore Trump) di ritirarsi dall’Afghanistan.

In primis, fanno notare alcuni autori del Cato, chi stima a tal punto la democrazia da esser disposto a rischiare la vita (altrui) per esportarla dovrebbe prima di tutto assicurarsi che venga applicata in patria, ad esempio tenendo conto della volontà popolare; e si dà il caso che il 70% dell’opinione pubblica americana volesse riportare a casa le truppe. Come ha spiegato Doug Bandow (grassetti miei):

i contrari al ritiro in genere sostengono che sarebbe stato opportuno mantenere un paio di migliaia di truppe sul posto solo per qualche mese o anno. Tuttavia, l’impotenza del governo afghano e la disintegrazione dell’esercito regolare dimostrano che un tale prolungamento non avrebbe fatto alcuna differenza nel destino finale del governo di Kabul. La vera scelta non era tra partire adesso o tra un paio d’anni: era andarsene adesso o restare per sempre. I fautori della guerra senza fine continuano a rifiutarsi di confrontarsi con il popolo americano, come si sono rifiutati di fare negli ultimi due decenni.

E con ciò si entra nel punto cruciale della visione del mondo degli esponenti del Cato Institute (riassunta nel video sottostante): con l’espressione “guerra senza fine” (endless war) indicano la sequenza di conflitti in cui gli USA hanno deciso di impelagarsi dall’ultimo dopoguerra ad oggi.

Se per tutta la durata della guerra fredda i vari conflitti “con gli stivali nel fango” potevano sembrare giustificabili in nome del contrasto anche fisico all’URSS, è un dato di fatto che le guerre sono continuate anche dopo la dissoluzione sovietica: Guerra del Golfo, Afghanistan, Iraq.
Perché tutto ciò è accaduto? In un mondo in cui non esisteva più neanche la minaccia sovietica e il terrorismo islamico era ben lontano dal nascere, cosa ha guidato davvero la politica estera degli Stati Uniti?
Al Cato Institute non sono molto idealisti. Non credono ai grandi ideali di esportazione della democrazia o di difesa dei diritti umani. Puntano invece l’indice contro quello che Eisenhower definì “complesso industrial-militare”, in un messaggio alla Nazione trasmesso il 17 gennaio 1961:

Siamo stati costretti [ a causa della guerra fredda, n.d.r.] a creare un’industria bellica permanente di vaste proporzioni. Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata da parte del complesso industrial-militare

Ma cos’è esattamente questo “complesso industrial-militare”? Lo ha spiegato Christopher Preble, che al Cato si occupa di studi sulla politica estera e la difesa americana. Per Preble il “complesso industrial-militare” è un insieme di 3 componenti:

1. un piccolo gruppo di imprese americane fortemente dipendente dall’industria bellica. Nella schermata qua sotto (tratta dal video di cui supra) trovate alcuni nomi e relativi fatturati nell’anno 2017

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2. i candidati al Congresso, che hanno bisogno di finanziare le campagne elettorali e trovano supporto nei collegi elettorali dominati da dipendenti della Difesa

3. la burocrazia, intesa come apparato statale, che vuole veder aumentato il proprio prestigio e soprattutto il budget

Dunque il lobbismo di queste tre componenti sarebbe alla base della politica estera guerrafondaia dal dopoguerra a Trump. Le motivazioni “alte” – come l’export di democrazia o la difesa dei diritti umani – fanno francamente sorridere.
Del resto, chiunque abbia più di 30 anni si ricorderà che queste giustificazioni sono piuttosto recenti; l’invasione dell’Iraq da parte di Bush Jr. fu motivata in un primo momento dal timore che Saddam Hussein si stesse dotando di armi di distruzione di massa. Fu solo dopo che quest’accusa si rivelò completamente infondata che il problema divenne, di punto in bianco, la mancanza di democrazia. E, com’è naturale, molti si sono chiesti – e continuano a farlo, generalmente senza ottenere risposte soddisfacenti – perché questa volontà di esportare la democrazia e tutelare i diritti umani sia così selettiva; perché, cioè, gli USA e i loro alleati ignorino quotidianamente violazioni di diritti umani del tutto analoghe (e spesso peggiori) a quelle perpetrate dai Talebani in altri Paesi al mondo. In Nigeria da anni imperversa Boko Haram, che è più o meno un equivalente locale dell’ISIS (con cui non a caso si era alleato), e il trattamento riservato alle donne locali non è certo migliore di quello messo in atto dai Talebani. E che dire della Cina e il suo rapporto con Hong Kong o con gli Uiguri?
Nel mondo liberal italiano c’è chi, di fronte a questi ragionamenti, si straccia le vesti gridando al cinismo e all’egoismo. Mario Lavia, su Linkiesta, constata sconsolato che

Nessuno è andato sotto l’ambasciata afghana, nessuno ha organizzato un sit in, un volantinaggio, un comizio: siamo tutti vacanza, non è vero? Ma nessuno ha pensato di fare – che so – dell’11 settembre una grande giornata italiana o magari europea a sostegno del popolo afghano e contro i barbari insediatisi a Kabul come diavoli nell’inferno. O di una domenica di settembre una festa nella quale le parrocchie potrebbero ben chiedere ai fedeli qualche soldarello per i bambini di Kabul.

Tutto ciò è vero, intendiamoci. Ma – ribadisco – non si capisce perché questa lotta alla barbarie non si estenda per coerenza a tutti i barbari del mondo, compresi quelli ben vestiti, sbarbati e titolari di conti correnti a sei zeri nelle banche occidentali.

Ci sono poi altri commentatori, decisamente meno ipocriti e più razionali, che tirano in ballo la geo-politica e gli equilibri mondiali da preservare. Costoro se non altro ammettono candidamente che invadere Paesi altrui non sarebbe finalizzato all’export di alti valori, ma alla difesa di interessi nazionali (tipo la lotta contro il terrorismo o il provare a impedire a Cina e Russia di espandersi troppo).
Ebbene, per quanto riguarda l’Afghanistan, al Cato Institute hanno grosse perplessità anche su questo. Anzi, a dirla tutta ritengono che il terrorismo islamico abbia semplicemente preso il posto del comunismo nel ruolo di grande spauracchio di massa, sventolato dai governi all’opinione pubblica per giustificare pesanti limitazioni alle libertà personali anche in tempi di pace (si veda tutto il capitolo della War on terror lanciata da Bush Jr.). L’occupazione militare di Paesi stranieri rientrerebbe dunque nella strategia della War on terror. Ma è realistica questa spiegazione? Per Bandow no.

In un mondo pieno di luoghi non governati o governati male, si afferma che per combattere il terrorismo sia di vitale importanza l’occupazione perpetua delle remote terre dell’Afghanistan.

Cioè – aggiungo io – di un Paese relativamente piccolo, perlopiù desertico e abitato da tribù di individui che vivono in società semi-feudali. Davvero pensiamo che il non-controllo di questo locus amoenus impedirebbe di difendersi dal terrorismo a un Paese che dispone di FBI, CIA, NSA e chi più ne ha più ne metta? Un Paese che, come ha raccontato Edward Snowden, pochi anni fa hanno messo (illegalmente) sotto intercettazione pressoché l’intera popolazione proprio in nome della lotta al terrorismo?

Di tutto ciò l’opinione pubblica americana, secondo Preble e altri del Cato Institute, sta finalmente prendendo coscienza, dopo decenni di uomini partiti vivi e tornati in casse di legno o invalidi, donne rimaste vedove, figlie rimaste orfane e trilioni di dollari passati dalle tasche dei contribuenti a quella della Lockheed; quel consenso plebiscitario al ritiro delle truppe ne sarebbe la dimostrazione. Biden – e, prima di lui, perfino Trump – da questo punto di vista vengono apprezzati per il coraggio di aver interrotto uno strapotere lobbistico che durava da decenni.

Credo che sarebbe un errore se l’Europa decidesse di sostituirsi agli USA in questo finto ruolo di World Police. Lo scenario è quello di tante Nassiriya, di famiglie distrutte da lutti e invalidità permanenti, di miliardi di euro spesi (da finanziare verosimilmente con aumenti di tasse) a fronte di miglioramenti assai modesti, se messi in relazione allo sforzo sostenuto (qui trovate 4 grafici sulla condizione delle donne afghane prima e dopo l’arrivo degli occidentali; alcuni miglioramenti sono innegabili, soprattutto per quanto concerne l’educazione, ma per ottenerli hanno perso la vita decine di migliaia di persone, tra cui più di 47.000 civili afghani).

Per chi poi è davvero sensibili ai diritti umani e alla condizione delle donne, esistono svariate ONG e agenzie dell’ONU che fanno del bene a giro per il mondo senza atteggiarsi a novelli Hernàn Cortés.

Sì, lo so, là fuori c’è la Cina che sembra intenzionata a colonizzare mezzo mondo; ma dubito lo farà davvero. E, se lo farà, credo andrà a finire come è sempre finita con tutti i colonialismi: i coloni si ribellano e sfanculano (perdonate il francesismo) i colonizzatori. E sì, lo so che al momento il regime cinese sembra granitico e indistruttibile, ma lo sembravano anche molti altri prima di esso, nella storia umana.