Pensare male conviene

Leggo stucchevoli commenti trionfalistici su un centrosinistra (più o meno contaminato) che ha dato cappotto alla destra populista e sovranista. Non ne leggo abbastanza che si preoccupino seriamente del fatto che questo centrosinistra (più o meno contaminato) ha preso il 55% (media spannometrica) del 54% degli aventi diritto (media nazionale), vale a dire, all’ingrosso, meno del 30% degli italiani (al secondo turno, che al primo stiamo fra la metà e due terzi). Certo, la destra ha preso meno ancora, se no non avrebbe perso, ma il senso è che con meno del 30% nel Paese, è difficile candidarsi a governarlo, anche se in questo momento, all’indomani di elezioni amministrative, si è conquistato il governo delle città. È arcinoto che le amministrative non sono le politiche. Che nel voto cittadino conta eccome il candidato, mentre alle politiche fa capolino l’identità, l’appartenenza, l’ideologia. Un sondaggio disponibile, realizzato ai primi di ottobre (pochi giorni prima delle elezioni) ci consegna un PD al 21%, un M5S al 16% e i tre partiti di destra al 45,40%, con indecisi dichiarati oltre il 30%. I sondaggi sono farlocchi e risentono di varie componenti anche tecniche (quello appena descritto è debolissimo come metodo dichiarato); comunque un secondo sondaggio (altra agenzia, realizzato pochi giorni dopo il precedente, farloccaggine appena meno accentuata) descrive un PD al 19%, M5S 16,9% e i tre partiti di destra al 47%.

Lasciamo stare la frittura mista dei partiti moderati di centro, più o meno riformisti, liberali etc. che non riescono a fare massa.

Anche immaginando che PD e M5S si alleino in forma strutturale e organica (dal mio punto di vista una prospettiva agghiacciante) restano quasi 10 punti sotto la destra; anche immaginando un Berlusconi che si sganci dai sovranisti lepenisti (una possibilità infima, non ci scommetterei un centesimo), il centrosinistra (coi grillini) varrebbe comunque meno del centrodestra populista. Per essere chiari: se anziché Roma e Milano, Torino e Napoli, si andasse al voto politico, dubito che i democratici, riformisti, socialdemocratici, liberali italiani possano immaginare di prendere Palazzo Chigi.

Ecco perché è bene lavorare intensamente in questi due anni che ci separano dalle elezioni, confidando che le crepe che incominciamo a vedere nella narrazione di Giorgia-madre-cattolica-italiana, e di Matteo-datemi-i-poteri, diventino frane, slavine, ridimensionamento di una destra schifosetta e totalmente inabile a governare.

Ma, al di là delle capacità della dirigenza PD di riflettere seriamente sulla loro identità, cercando di rafforzarla e ben comunicarla (un’operazione assai facile, visto che partono da zero), resta quel 40% di italiani che non ha votato.

Bisogna chiedersi chi sta in quel 40%. Al netto di altre considerazioni, per la maggior parte è gente che non si sente rappresentata; e non si sente rappresentata perché è stata presa in giro troppe volte (l’ultima dai grillini, la grande illusione del popolo di avere finalmente una voce nuova e di rottura che poteva mandare a casa quei mascalzoni di politicanti, e si sono ritrovati anni dopo con Conte e Di Maio; potete capire il senso di totale presa per il culo?). La crisi della rappresentanza (politica, sindacale…) è crisi di democrazia, nel senso più intimo: la democrazia propone un modello incapace di farsi prendere sul serio, incapace di mostrarsi credibile. La democrazia è solo apparentemente “democratica” ed egualitaria (ogni voto conta uno, ciascuno vale uguale) perché a votare ormai ci va il ceto medio e non la periferia e il nuovo sottoproletariato metropolitano. A votare ci vanno i portatori di una ragionevole identità borghese, e non chi tale identità sfugge e semmai disdegna. 

La crisi della rappresentanza è innanzitutto crisi dei rappresentanti. Si è già detto tutto sulla modestia dei candidati sindaci della destra, indicata come una delle cause della loro sconfitta, ma, francamente, a parte qualche lodevole eccezione, non è che la sinistra abbia presentato dei giganti! Si è detto sulle posizioni ondivaghe e ambigue di Meloni e Salvini (altra causa indicata della sconfitta) ma credo si potrebbe dire qualcosina sulla fumosità e scarsa chiarezza degli ultimi segretari dem e su non pochi (non pochi!) leader di quel partito. 

Facciamo un gioco: ditemi – senza andare su Google – qual è la posizione ufficiale del PD sulla scuola, l’Università e la ricerca; quale quella sugli immigrati (fra accoglienza e respingimenti); quale quella sul lavoro ed eventuale riforma del settore. Ve lo dico io. Non c’è. Ovvero: sulla scuola la posizione è un generico “va sostenuta”, sugli immigrati un fumoso “bisogna pensarci seriamente” e sul lavoro senz’altro “un problema serio che va affrontato senza incertezza”. Se – navigando fra i documenti ufficiali del PD – trovate qualcosa di più, al massimo è una relazione tecnica di una commissione specifica, scritta dal bravo politico di turno che ha fatto il suo compitino redigendo una memoria che nessuno leggerà.

È normale che sia così: i pochi politici (non del PD) che si provano ad argomentare in maniera circostanziata temi politici, viaggiano sul 2-3%. 

Perché la crisi della rappresentanza è anche crisi dei rappresentati, non più capaci (ma neppure desiderosi) di affrontare un’argomentazione complessa, e abituati da decenni di berlusconismo all’ipersemplificazione dei problemi; la politica (mica solo in Italia) è diventata mercato, l’argomentazione si è tramutata in slogan, il dibattito in talk show. E il “popolo sovrano” questo oggi chiede: un politico-showman che straccia gli avversari con battute al vetriolo in TV; uno che promette mari e monti negando i problemi e vellicando i sentimenti più deteriori degli elettori.

Per concludere: sono ben contento della sconfitta di Salvini e Meloni (e dei grillini), ma non è che mi metta a dormire fra due guanciali; la gente non è cambiata, dall’oggi al domani, per una qualche alchimia, e in quel 40% di astenuti c’è molto di recuperabile (se qualcuno si degna di cercare di farlo) ma c’è anche molto marcio che aspetta una nuova occasione per emergere.