La conclusione del Cop 26si presta perfettamente alla metafora del bicchiere: mezzo vuoto per i pessimisti e, specialmente, per ogni massimalista, e mezzo pieno per chi comprende che il passo avanti, piccolo ma inedito, insoddisfacente sotto diversi punti di vista ma promettente, è l’inizio di una slavina che, con un po’ di tempo e con molta determinazione, porterà a significativi passi avanti nella lotta contro l’inquinamento, il cambiamento climatico e la distruzione del pianeta.
La determinazione è ciò che più necessita, e molti importanti paesi, come il gruppo europeo e la grande inquinatrice americana, hanno per una volta mostrato di non essere lì per finta, per ipocrisia o per acquietare i sentimenti dei propri corpi elettorali; hanno mostrato, insomma, di avere contezza reale del problema, della sua ineluttabilità e urgenza; d’altra parte il gruppo di paesi resistenti, capitanati da altri due grandi inquinatori, India e Cina, anche se all’ultimo momento sono riusciti ad annacquare la risoluzione finale, hanno mostrato segni di cedimento e di (modesta, condizionata) disponibilità. E non può che essere così, perché potrai anche essere una superpotenza economica con tendenze locali al bullismo, ma vivi nel medesimo pianeta, soffri delle medesime conseguenze e, specialmente, puoi ignorare solo fino a un certo punto la pressione internazionale. Oggi sono riusciti a tenere il freno pigiato, domani forse non sarà più possibile nemmeno per loro.
Sul lato dei massimalisti, invece, mi permetto di segnalare la sconfitta del gretismo. La Thunberg insiste col nuovo slogan, quello del bla bla, certamente efficace sotto il profilo comunicativo. Ieri ancora ha affermato che la sintesi del Cop 26 è solo un bla bla bla, e che “Il vero lavoro continua fuori da queste sale”. Ora, fra persone adulte ci possiamo dire le cose come stanno: fuori da quelle sale non c’è proprio nulla. Fuori da quelle sale c’è una ragazzina astuta e ignorante che ha avuto l’indubbio merito di accendere un ulteriore riflettore (non il primo, non l’ultimo) sui problemi ecologici, e null’altro. Greta non scalfisce minimamente la volontà politica, economica, diplomatica di Cina e India, per esempio, e il suo manifestare nei liberi (e sensibilizzati al tema) paesi occidentali è fin troppo facile. Greta non contribuisce neppure un briciolo al modo, alla forma, tramite la quale 200 paesi, ognuno diverso, ognuno coi propri bisogni e interessi, ciascuno con una propria opinione pubblica alla quale rendere conto, riescono a mettersi in qualche modo d’accordo su un documento che rappresenta oggettivamente un primo passo avanti.
L’idea che i problemi non debbano essere affrontati col dialogo e la mediazione fra i capi di stato, ma coi sit in degli adolescenti è, appunto, un’idea adolescenziale. Non è certo per una marcetta di protesta che la Cina, pentita, andrà ad eliminare il carbone.
Si poteva fare di più, certo, evitiamo i luoghi comuni. Ma qualunque decisione planetaria ha bisogno di un consenso planetario, talmente difficile anche solo da immaginare, che considerare il lavoro diplomatico di questi mesi fa girare la testa. Se è poco, allora ciascun cittadino spinga verso i suoi rappresentanti, perché l’Italia sia avanguardia e spinga perché l’intera Unione faccia valere il suo peso. E costruisca alleanze, prima di tutto col Nord America e coi paesi più disponibili. E andiamo avanti. Ma qualunque decisione è, per definizione, il frutto di accordi e compromessi, dove si discute. Chiamare quella discussione, e quella ricerca di accordo, un banale e inutile bla bla bla, non solo è sbagliato nel merito, ma è pericoloso nel metodo, perché crea la falsa illusione dell’impossibilità della soluzione, dell’inutilità anche della protesta.
Certo, fatemi concludere con una cattiveria, uno strepitoso accordo del Cop 26 avrebbe significato rispedire in diretta Greta Thunberg a casa, a fare la liceale, o quel che è, senza più uno Scopo Così Nobile e sotto la luce di cotanti riflettori. Greta Thunberg è la prima a non avere interessi a reali, veloci ed efficaci accordi sul clima, come Mahmud Abbas non ha un reale interesse alla pace concreta e solida con Israele. Questo è il destino dei massimalisti: non hai più alcun interesse nella soluzione del problema che ti ha dato celebrità, un ruolo, una posizione quando hai inizialmente avviato una protesta: quel tuo ruolo e quel tuo riconoscimento sociale vivono finché il problema persiste, e finché tu lo fai credere persistente. Risolto il problema torni a essere uno qualunque, ovvero nessuno (esempio più modesto: il povero Puzzer, da rappresentante dei portuali a portavoce, forse, di vaghe componenti no vax, aggrappato a quei dieci minuti di celebrità che gli stanno sfuggendo di mano).