L’essere umano è sociale per natura, e solo dentro una società riesce ad essere felice. Eppure siamo entrati un una fase non solo di accentuato individualismo, culmine di un’evoluzione iniziata più di due secoli fa con l’Illuminismo, ma anche di un nuovo fenomeno d’isolazionismo nato 20 anni fa. Ciascuno di noi è da tempo libero di pensare e dire (soprattutto nelle reti sociali) quello che vuole, ma ora pretende anche di poter agire a suo piacimento. Però invece di felicità per questa libertà assoluta, sente rabbia e frustrazione. Quasi tutti i paesi sviluppati sono scossi da movimenti e proteste (trumpismo, gilet gialli, Brexit, anti vax etc.) che sono difficili da spiegare guardando solamente alle condizioni materiali di vita dei loro aderenti, tanto che il termine “Il grande disagio” é molto appropriato. Una gran contraddizione? Al contrario, la conferma del fatto che solo come parte di un congiunto di persone possiamo essere felici.
Giusto per capirci, questo non è un attacco alle libertà individuali. Il mio giudizio sull’avanzare dell’individualismo è assolutamente positivo, fino all’inizio del nuovo secolo. Ma negli ultimi 20 anni questo processo è entrato in una nuova dimensione. Ai diritti del singolo di scegliere il proprio stile di vita, partito politico, identità sessuale etc. si è aggiunta una nuova convinzione: che l’individuo da solo può raggiungere la felicità. Pensate un attimo ai concetti di meditazione, wellbeing, mindfulness, yoga, ritiri spirituali, diete personalizzate e self-improvement, che tanto sono di moda. Non notate un elemento in comune? Sono tutte cose che si costruiscono da soli – senza lineamenti rigidi da seguire – e si praticano da soli, spesso nella tranquillità della casa. Un bel cambio rispetto alle funzioni religiose di gruppo, la dieta mediterranea, gli sport di squadra, le feste patronali e le filosofie tradizionali, che sono le stesse per tutti e si praticano in gruppo. L’idea è che per raggiungere la felicità sia sufficiente raggiungere la pace interiore, siano quale siano le circostanze esterne. Ma posso essere veramente felice se il mio ruolo e la mia importanza inizia e finisce con me stesso?
Non si può, perché a parte degli eremiti, tutti apparteniamo a qualche gruppo: famiglia, colleghi, condomini, vicini di casa, concittadini etc. La nostra felicità dipende quindi in parte dal ruolo che assumiamo in questi gruppi e dalle relazioni che instauriamo con gli altri membri. Nuovi studi condotti dallo psicologo americano Isaac Prilleltensky hanno misurato come la soddisfazione e la felicità personale dipendano in buona misura dall’importanza che assumiamo e dal riconoscimento che riceviamo dentro questi gruppi, in una relazione simbiotica di dare e avere. Apportiamo al benestare del gruppo attraverso le nostre azioni, e in cambio riceviamo apprezzamento, gratitudine e soprattutto un ruolo (fratello, capo reparto, vicino, membro del coro etc.). È vero che in un gruppo una persona può raggiungere un ruolo e importanza molto alti grazie a condotte puramente egoiste, come il goleador che non passa mai la palla. In questo caso l’importanza è proiettata unicamente verso se stessi, e non porta alla vera felicità. Per essere felici bisogna guadagnare importanza grazie a condotte e iniziative che beneficino il gruppo.
Questa concezione dell’importanza all’interno di un gruppo fornisce non solo un freno alle condotte egoiste, ma anche un limite alla libertà individuale. Perché se l’esercizio della mia libertà individuale finisce per danneggiare il resto del gruppo, non stiamo contribuendo al nostro benestare (ogni riferimento al movimento anti Vax é puramente voluto). Ora bisogna prendere conto di questa realtà e frenare la discesa verso l´individualismo isolazionista che sta causando tanti conflitti dentro la società. Per farlo, é necessario tornare a mettere al centro della nostra vita i circoli sociali a cui apparteniamo, volenti o nolenti, e pensare a come aiutare la persona che siede alla nostra destra e quella alla nostra sinistra. Non si tratta di concetti nuovi: gli Stoici ci erano già arrivati, e le nostre nonne dicevano giustamente “solo come un cane”.
Contributo scritto per Hic Rhodus da Giuliano Perseu
Iniziò la sua carriera in agenzie stampa a New York, ma dopo avere scoperto il lato oscuro del giornalismo italiano decise di passare alle relazioni internazionali, utilizzando un master della Columbia University come biglietto di sola andata. Il viaggio lo ha portato a vivere in El Salvador, Afghanistan, Sierra Leone, Iraq, Caraibi, Senegal e Colombia, ed èappena iniziato.