L’esibizione del dolore nelle raccolte fondi

Avrete visto, come me, le pubblicità televisive di associazioni umanitarie che cercano di raccogliere fondi per bambini disabili, o africani denutriti, con malattie agli occhi o altro. Queste le vediamo da anni, e più recentemente se ne sono aggiunte altre con altri protagonisti, per esempio i senza tetto. Le trovo un’oscenità, e ho scoperto che sono oggetto di critiche da anni.

Due letture chiare e approfondite sul tema:

In questi due testi, e altri che troverete facilmente in rete, potrete leggere l’ambiguità e la scorrettezza di questa sempre più ampia e assillante manovra promozionale: poco rispetto dei minori (contraria alla Carta di Treviso), esibizione impietosa della sofferenza per raccogliere fondi, messaggi poco chiari, etc.

Oltre alla televisione vi sono i social media. Una recente analisi ha mostrato come in un anno le prime 11 ONG mondiali vi hanno investito 5 miliardi di dollari; la sola Save the Children da aprile 2019 a marzo 2020 ha investo 2,6 milioni di Euro solo su Facebook. Anche se le spese sono decisamente alte, i ritorni sono certamente soddisfacenti.

Dei 123,7 milioni di Euro raccolti da Save the Children nel 2020, il 96,5% è arrivato da privati (fonte); dei 46,2 milioni di ActionAid nel 2020, l’82% è parimenti arrivato da privati (fonte); nello stesso anno Sightsavers ha raccolto (dato mondiale) 292,57 milioni, di cui il 59% come “donazioni in natura” e il 12% da individui. 

Insomma, le ONG rastrellano ingenti somme, e certamente la quota in pubblicità è in qualche modo ripagata.

Ma oltre ai soldi, le ONG hanno bisogno di promozione. Sia per rendersi visibili a istituzioni e “grandi donatori” (aziende, mecenati), sia per orientare l’opinione pubblica, che è spesso una componente importante del loro mandato.

Torniamo al modello comunicativo scelto. Mostrare gli assistiti, i bisognosi, i malati, eventualmente i loro tristi genitori, semmai la miseria dei loro villaggi (se bimbi africani) o della vita in strada (se si tratta di senzatetto), con commento recitato mestamente, il “Grazie” finale quasi soffiato con l’ultimo sospiro, tutto questo è realmente necessario? Sì e no. No, ovviamente, perché gli spot potrebbero essere completamente diversi, per esempio con un commentatore che illustra i successi, i progetti, o la natura dei problemi che si intendono risolvere. Ma sarebbe troppo freddo e distaccato, e quindi sì, è necessario per una ragione molto semplice: far leva sui sensi di colpa. Quando nel vostro salotto, fra aperitivo e cena, o durante un bel film, o mentre pensate se andare a mangiarvi una pizza o se non sia meglio il cinese all’angolo, ecco comparire il bambino cieco con gli occhi che lacrimano e la narratrice che ti inchioda:

la verità è che questi bambini non dovrebbero diventare ciechi; tu puoi far sì che ricevano le semplici cure che gli permetteranno di vedere di nuovo, che gli ridaranno indietro la loro vita (minuti 0.33-0.46 dello spot indicato sopra),

ecco, quando questo accade è difficile non sentire un profondo disturbo interiore.

Questo stralcio dello spot è un piccolo capolavoro comunicativo che gira attorno a tre concetti: i) “la verità”, ii) “tu” e iii) “semplici cure”. La verità è il concetto cristiano della colpa, che nasce dal negare la realtà, la verità, i fatti, la negazione del male del mondo che “tu”, proprio tu nel tuo salotto, proprio ora, potresti vittoriosamente affrontare grazie alle “semplici cure”, bazzecole, di poca spesa e grande successo, e sei davvero un cane se non fai quella piccola e semplice cosa per salvare Enoch (il piccolo protagonista cieco dello spot) e “ridargli indietro la sua vita”.

Per carità, si fa pubblicità per vendere, e la pubblicità enfatizza ogni presunto bene e nega ogni ipotetico male; se ci hanno fatto bere per decenni quella porcheria della Coca Cola, vorrà ben dire che i pubblicitari sanno far bene il loro sporco lavoro, giocando con semplici strumenti linguistici, psicologici e, specialmente, morali, tutti centrati sul cristiano senso di colpa dei ricchi e pasciuti occidentali. Se però mi va bene per la Coca Cola, che non può sfruttare la leva morale ma solo la seduzione dell’ego, credo di volere decisamente rifiutare il messaggio colpevolizzante delle ONG.

Benemerite, da ringraziare, sottoscrivo ogni e qualunque apprezzamento verso di loro. La mia famiglia aiuta già una di queste, col 5×1.000 e con una adozione a distanza. Poca roba, certo, di cui è responsabile specialmente mia moglie, assai più incline all’affettività di me. Ma l’operazione comunicativa di cui abbiamo parlato qui mi ripugna. Mi allontana. Non accetto di commuovermi a comando perché una ONG vuole la mia carità e mi mostra il male del mondo. Il male del mondo dobbiamo comprenderlo con la ragione, come consapevolezza quotidiana che ci deve indurre a specifici atteggiamenti politici, i quali possono includere la carità oppure no. La carità oppure no, e non la carità come sifone di scarico della colpa, per cui doniamo 10 Euro e poi siamo pari e patta con la vita, col dolore, col Male, con le disgrazie, con le ineguaglianze, con le sofferenze dei più deboli. Donare 10 Euro e poi correre a dimenticare con Sanremo o una bella serie su Neflix; donare 10 Euro e poi occupare il posto auto dei disabili; donare 10 Euro e poi concentrarsi sulla settimana bianca, su come eludere le tasse, su come rovinare la vita al prossimo. Questa montagna di ipocrisia è la coltre che nasconde i sensi di colpa di una morale fragile, come la religione dominante ci ha insegnato da secoli a subire.

La vera alternativa è guardare in faccia il Male, con freddezza e lucidità. Senza colpe, perché non ne abbiamo. E poi, volendo, si possono anche dare i 10 Euro.