In questa campagna elettorale un po’ surreale, in cui Berlusconi decide di parlare ai giovani su TikTok, si discute con apparente serietà della presenza della “fiamma” nel simbolo di Fratelli d’Italia, si commentano foto di Enrico Letta nei panni di cameriere di pizzeria o immaginette di Salvini davanti a uno sfondo che sembrerebbe un eccesso di iconografia religiosa anche al Padreterno, personalmente sento molto la mancanza di un sano, robusto, chiaro confronto tra interessi contrapposti.
Eh, sì, perché in fondo io sono un figlio del Novecento, ed ero stato abituato a pensare che i partiti fossero innanzitutto luoghi di rappresentanza di interessi, e che la differenza tra essi fosse sostanzialmente quali interessi ciascuno decidesse di rappresentare. Certo, la storia politica del Novecento, e quella italiana in modo speciale, vedeva questa rappresentanza attraverso le lenti “colorate” delle appartenenze ideologiche, per cui gli interessi dei “lavoratori” dovevano per forza essere rappresentati dal socialismo o dal comunismo, quelli dei “padroni” dal liberismo, mentre quelli della borghesia finivano per essere risucchiati nel magmatico calderone del cattolicesimo sociale. Per questo il PCI non era il “Partito dei Lavoratori” e la DC non era il “Partito Conservatore”, all’inglese, perché ciascuno dei due pretendeva che gli interessi dei lavoratori e della borghesia dovessero passare per le forche caudine del marxismo e del cattolicesimo sociale. Ma, ideologie a parte, almeno a sinistra, il PCI, e anche la CGIL in ambito sindacale, aveva come obiettivo perseguire l’interesse della classe lavoratrice, in contrasto con quello della borghesia e quello degli imprenditori. Il voto, per quanto appunto attraverso la discutibile mediazione delle ideologie, doveva alla fine costituire una misura delle rispettive forze (almeno in ambito parlamentare). Tra gli anni Sessanta e Settanta, la forza dei partiti e dei sindacati di sinistra portò a decisioni politiche favorevoli alla classe dei lavoratori, mentre negli anni Ottanta il declino del PCI e dei sindacati creò le condizioni per politiche più favorevoli a borghesi e imprenditori (ad esempio il fortissimo abbattimento della progressività delle aliquote fiscali).
Oggi le cose non stanno più così. Certo, da un lato è la società a non essere più rigidamente divisa in classi, se mai lo è stata, e il proletariato e la borghesia sono stati frammentati e rimescolati fino al punto da rendere difficile riconoscere nella società un’entità coesa da “rappresentare” politicamente. Che sia questa o meno la causa (io sospetto che siano soprattutto altre), la realtà è che lo scontro politico non è più centrato su interessi contrapposti, e questo non vale solo in Italia, o nell’ambito strettamente “politico”.
Lo si può capire, penso, da alcuni esempi. La pandemia in questo è stata emblematica: di fronte al Covid non esistevano interessi contrapposti da conciliare, perché tutti i cittadini avevano lo stesso interesse, ossia proteggere la propria salute con i migliori strumenti disponibili. Eppure, abbiamo osservato il crescere di un violento conflitto, in assenza di qualsiasi contrapposizione di interessi. Nel Regno Unito, non esisteva probabilmente alcun suddito della Corona il cui interesse fosse abbandonare l’Unione Europea, eppure la Brexit è stata per anni il tema centrale del dibattito politico e alla fine si è concretizzata. Tornando in Italia, mi sento di affermare serenamente che non esista alcun cittadino del nostro paese il cui interesse fosse la fine del governo Draghi, eppure il governo Draghi è caduto. In tutti questi casi, e in molti altri, i temi del dibattito politico non hanno alcuna valenza di confronto (ed eventuale successiva conciliazione) tra gli interessi di ampie fasce sociali del paese, ma, nella migliore delle ipotesi, di come perseguire efficacemente un interesse che bene o male è comune a tutti.
Questo mi sembra un tratto fondamentale della politica che oggi viviamo. Anche le proposte apparentemente più “di classe” che vengono messe sul tavolo, spesso sono prive di reale contenuto. Un esempio molto evidente è la cosiddetta flat tax, tanto strombazzata dalla Lega, e poi inclusa in modo estremamente annacquato nel programma comune del Centrodestra: è praticamente impossibile individuare una “classe” che ricaverebbe un beneficio serio da una misura pure così pubblicizzata (l’ottimo sito lavoce.info ha dedicato diversi articoli al tema flat tax; in particolare, questo prende in esame la proposta della Lega e questo descrive il poco che alla fine della “flat tax” si ritrova nel programma del Centrodestra). Insomma, la flat tax così ridimensionata avrebbe effetti minimi sulla vita degli italiani, non è certo l’arma adatta per favorire chissà quali interessi di classe. È in sostanza niente di più che una bufala elettorale, uno slogan vuoto.

Anche nella sinistra radicale, dove, per tradizione politica, la rappresentanza di classe è un tema centrale, le forme in cui essa si concretizza spesso sono tutt’altro che… concrete. Quando ci si trova di fronte alla pubblicizzazione di una proposta come l’abolizione dei jet privati, avanzata dall’alleanza Verdi – Sinistra Italiana, si può constatare che, al di là di ogni discussione nel merito, l’eventualità che chi possiede i 133 (centotrentatré) jet privati attualmente registrati in Italia finisca per dover utilizzare voli di linea riguarda un numero infimo di “ricconi” e difficilmente merita il risalto che la comunicazione elettorale di questa forza politica le ha dato. Anche qui, si tratta, a voler essere benevoli, di un tema simbolico che unisce l’ambientalismo dei Verdi al “socialismo” della Sinistra Italiana e quindi è stato giudicato utile come slogan elettorale, mentre molte altre proposte che sono presenti del programma dell’alleanza Verdi – Sinistra Italiana (ad esempio l’innalzamento delle aliquote fiscali fino al 65% per i redditi elevati, la tassa patrimoniale o il ripristino della scala mobile) non ottengono altrettanta attenzione.
In sintesi, quello che voglio osservare è che i temi potenzialmente rappresentativi di un reale conflitto tra interessi di grandi gruppi sociali sono spesso ridotti a scaramucce su ipotetici provvedimenti di facciata con effetti reali irrisori, mentre i temi che realmente creano dibattito e anche conflitti riguardano problemi rispetto ai quali gli interessi del 99% dei cittadini coincidono: la salute, la sicurezza, i rapporti internazionali, i diritti civili, la modernizzazione del paese, lo sviluppo economico. E allora è difficile non chiedersi: come fa un tema su cui abbiamo tutti lo stesso interesse a risultare più divisivo di uno su cui esisterebbero interessi contrapposti?
La risposta non può che coinvolgere in modo rilevante la comunicazione, di cui quella politica non è che una parte, e certo non quella che usa gli strumenti più avanzati. La comunicazione politica ormai non privilegia contenuti di sostanza, ma memi, che si prestino a essere etichettati come di destra, di sinistra, ambientali, a seconda del pubblico a cui si rivolgono. Anche laddove il meme politico è antagonistico rispetto a una parte della società, questa non è mai una classe sociale o un gruppo equivalentemente esteso, ma una nicchia marginale (i proprietari di jet privati, le cooperative che si occupano di migranti, eccetera) che per definizione non ha quindi una rappresentanza politica diretta ma al massimo delle affinità con questa o quella forza politica.
Ebbene, sarò incurabilmente novecentesco, ma preferirei di gran lunga una campagna elettorale in cui i temi posti al centro del dibattito fossero quelli su cui si scontrino gli interessi reali delle diverse categorie di cittadini. Vorrei che la Sinistra ponesse al centro della sua comunicazione l’introduzione di una patrimoniale, o che la Lega proponesse esplicitamente la privatizzazione della Sanità: su questo vorrei litigare, e non sui vaccini o sullo jus scholae.
Aridatece la lotta di classe!