Calderoli torna a lavorare per fottere l’Italia

Confesso la mia colpa: quando nella raffazzonata lista dei ministri del Governo Meloni ho letto il nome di Roberto Calderoli al dicastero per gli Affari regionali e le Autonomie, ho avuto più o meno la stessa reazione di quando è uscito Rocky V o di quando uno dei tanti cantanti degli anni Settanta torna, svociato e plasticato, a calcare il palcoscenico di Sanremo. Ho pensato cioè che il sessantaseienne Calderoli, a cui a memoria di anni ne avrei dati una novantina, fosse una specie di curiosità un po’ patetica e un po’ inquietante, come uno zombie sdentato aggiunto in extremis al cast della Famiglia Addams per fare numero.

Mi sbagliavo.

Conviene innanzitutto ricordare chi sia Roberto Calderoli. Leghista della prima ora, è forse l’unico superstite dei tempi della Lega “bossiana”, quella della Padania e dell’ideologo Gianfranco Miglio, per intenderci. Se Miglio è ricordato appunto come ispiratore dei grossolani ma efficaci slogan federalisti proclamati da Bossi, e quest’ultimo, nonostante il suo indelebile soprannome Senatùr, è oggi Deputato, Calderoli ha segnato la storia della nostra Repubblica firmando alcune tra le peggiori porcherie istituzionali che abbiano mai imbrattato il nostro pur non immacolato ordinamento.

Naturalmente, la prima e più eclatante è quella che lo stesso Calderoli definì una “porcata”, e che conseguentemente fu ribattezzata il Porcellum, ossia la legge elettorale approvata nel 2005. Criticatissima e giudicata incostituzionale in alcune sue parti da una sentenza della Consulta del 2013, resta famigerata persino nel desolante panorama delle nostre leggi elettorali. Calderoli poi, nella veste di Ministro per la semplificazione normativa, contribuì considerevolmente alla confusione normativa, senza per questo rinunciare a compiere teatrali celebrazioni dei presunti risultati della sua opera, come quando diede fuoco ai testi di legge abrogati, naturalmente all’interno di una caserma dei Vigili del Fuoco, costretti a intervenire per spegnere il falò. Nel 2015 si segnalò per aver presentato 82 milioni di emendamenti generati dal computer alla proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi, nel tentativo di paralizzare il Senato che doveva esaminarla.

Eppure, secondo me, la traccia più duratura dell’operato istituzionale di Roberto Calderoli sta nella legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale a sua firma, e soprattutto nella sua successiva applicazione, su cui abbiamo scritto un articolo commentando il libro di Marco Esposito dall’eloquente titolo Zero al Sud, che documenta come, nonostante l’obbligo teorico di stabilire dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che i servizi pubblici devono assicurare in tutta Italia (e che quindi devono essere, corrispondentemente, finanziati con un apposito fondo), questo obbligo è stato sistematicamente eluso per impedire che alle regioni dove i servizi sono insufficienti venissero dati i soldi per realizzarli. Insomma: la Legge Calderoli sul federalismo fiscale stabiliva che le Regioni più ricche potessero offrire servizi pubblici superiori ai propri cittadini, istituzionalizzando la “Serie A” e la “Serie B” dei servizi pubblici in Italia, ma prevedendo almeno un livello minimo di servizio da garantire ovunque e da finanziare col concorso di tutte le Regioni; l’applicazione della legge ha poi disatteso questo obbligo e ha di fatto cristallizzato la “spesa storica”, trattando i grandi divari di risorse pubbliche esistenti tra diverse Regioni non come un’anomalia da compensare ma come una realtà a cui fare riferimento.

D’altra parte, se la sperequazione economica tra Regioni va a tutto svantaggio di quelle meridionali, abbiamo visto nei fatti che l’attribuzione alle Regioni di competenze esclusive o prevalenti su una serie di servizi ha provocato un’incapacità di definizione di politiche efficaci e di coordinamento di esse su scala nazionale i cui effetti perversi non hanno risparmiato neanche le zone più ricche del paese. In presenza di una crisi grave come quella provocata dalla pandemia, che incideva su un sistema sanitario gestito sostanzialmente dalle Regioni, anche i cittadini del Nord, teoricamente privilegiati, si sono trovati di fronte a incapacità e superficialità dalle conseguenze drammatiche.

Eppure, la lezione non è servita, anzi. Il prode Calderoli, appena insediato nel suo nuovo ministero, ha predisposto una “bozza” di legge sulla cosiddetta autonomia differenziata che, nella sostanza, ha lo scopo di replicare i contenuti di quella del 2009 estendendoli, su richiesta delle singole Regioni, anche ad ambiti che la riforma federalista della Costituzione non delegava alle Regioni. Anche in questo caso, il meccanismo pensato per derubare le Regioni più povere è lo stesso: prevedere il teorico obbligo di definire dei Lep, e poi però subito si stabilisce che «fino alla determinazione dei livelli essenziali nelle materie di cui al comma 1, per la determinazione, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, delle risorse corrispondenti alle funzioni oggetto di trasferimento si applica il criterio della spesa storica sostenuta dalle amministrazioni statali nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni trasferite». Il grassetto che evidenza il riferimento alla spesa storica ovviamente è mio; commenti sui contenuti della bozza si possono trovare ad esempio sul Sole 24 Ore o su lavoce.info.

Insomma, Calderoli, in perfetta coerenza col suo passato, tenta di fottere questo paese con l’ennesima porcata, accrescendo ulteriormente il divario tra Regioni ricche e povere e contemporaneamente sottraendo allo Stato centrale la possibilità di stabilire e applicare politiche nazionali coerenti su temi vitali. Anziché chiederci se la Meloni debba o meno portare con sé la figlia in viaggi all’estero, forse dovremmo preoccuparci di queste cose qui.