Fusione nucleare: ci siamo? Beh…

Lo confesso: è molto emozionante assistere all’annuncio di un “salto” nel progresso scientifico, almeno per me. E se è vero che a rigore gli sforzi per arrivare a costruire impianti in grado di produrre energia grazie alla fusione nucleare sono parte della ricerca applicata e non di quella fondamentale, la fusione è quanto di più simile al Sacro Graal la scienza possa offrire all’umanità. Ecco perché apprendere che negli USA, presso la National Ignition Facility (NIF), è stata ottenuta una reazione di fusione nucleare sostenuta, che ha prodotto circa una volta e mezza l’energia necessaria per innescarla, è affascinante.

La notizia ufficiale reca la data del 13 dicembre, anche se l’esperimento risale a qualche giorno prima. La NIF, che è un centro di ricerca finanziato dal Dipartimento dell’Energia del governo USA, utilizza la tecnica della fusione a confinamento inerziale, mentre la maggioranza degli impianti sperimentali esistenti, a partire dal tremendamente complesso ITER, si basa sulla tecnica del confinamento magnetico. Proviamo a spiegare in cosa differiscano.

Una delle principali difficoltà per innescare la fusione nucleare è riscaldare a temperature elevatissime il combustibile nucleare (tipicamente isotopi dell’idrogeno) mantenendolo al contempo concentrato in uno spazio ridottissimo per consentire ai nuclei atomici di fondersi superando la forza repulsiva dovuta alle loro cariche elettriche positive. Questa “concentrazione” dei nuclei, che richiede un’enorme pressione, è chiamata confinamento, e per ottenerla sostanzialmente si stanno usando due tecniche: una basata sull’uso di potenti campi magnetici, e in questo caso si parla appunto di confinamento magnetico, e l’altra che sfrutta la pressione prodotta dal “fuoco” concentrato di numerosi laser ad alta potenza, ossia il confinamento inerziale. Al momento non si può dire con certezza quale dei due metodi si rivelerà migliore, e anche se il risultato ottenuto col confinamento inerziale è ora come ora superiore, è pienamente possibile che possa essere eguagliato o superato da qualcuno dei progetti a confinamento magnetico. Come si vede anche nella figura qui sotto, prelevata dall’articolo Burning plasma achieved in inertial fusion pubblicato su Nature, nell’apparato della NIF la capsula sferica di combustibile si trova all’interno di un involucro cilindrico che colpito dai laser si satura di raggi X, che a loro volta provocano la vaporizzazione della capsula e l’implosione inerziale del combustibile in essa contenuto.

Si tratta insomma di un procedimento incredibilmente sofisticato, ai limiti delle capacità ingegneristiche raggiungibili anche con i cospicui finanziamenti di cui gode il NIF. Davvero il risultato ottenuto è importantissimo.

Festeggiamo? Un attimo. Alla notizia, che peraltro avrete probabilmente già letto altrove, vorrei aggiungere un paio di considerazioni e un’annotazione personale.

La prima considerazione riguarda quanta strada c’è ancora da fare dopo questo evento. Mentre è certamente giusto riconoscerne il valore scientifico e pratico (un pochino più rilevante, faccio solo un esempio, di una ex-showgirl ex-minorenne che canta una sua ex-canzone tuttora brutta come quando fu incisa), è altrettanto necessario spiegare correttamente quanto questo passaggio ci avvicini alla produzione di energia da fusione per uso commerciale. Gli stessi dirigenti del programma NIF, nella conferenza stampa dell’annuncio, hanno spiegato che ci vorranno ancora decenni prima di giungere alla produzione effettiva di energia da fusione per il mercato. Un problema in particolare molto poco conosciuto dal pubblico è quello della disponibilità di combustibile: di solito, la fusione viene presentata come una possibile fonte di energia «pulita, essenzialmente illimitata», come è scritto ad esempio nell’articolo con cui RaiNews annuncia la notizia di ieri. Quello che nessuno dice è che tutti i tentativi in corso per ottenere energia da fusione si basano sull’utilizzo come combustibile di una miscela di deuterio e trizio, e che il trizio in natura praticamente non esiste. Le piccolissime scorte di trizio di cui disponiamo, e che in tutto il mondo ammontano a circa 30 chili, derivano prevalentemente da centrali nucleari a fissione moderate con acqua pesante, ossia proprio una delle tecnologie che vorremmo abbandonare grazie alla fusione nucleare. Insomma, mentre il deuterio può essere ricavato dagli oceani ed è effettivamente praticamente inesauribile, il trizio non esiste, e per di più è radiattivo, quindi non può essere immagazzinato a lungo perché in circa 12 anni la sua quantità si dimezzerebbe (quindi il trizio che esiste oggi non potrà essere usato nelle future centrali). Per questi motivi, nel progettare i futuri reattori a fusione, c’è la necessità di incorporare un componente (chiamato in genere breeding blanket, che potrei tradurre con “coperta di riproduzione”), tipicamente a base di litio, che, sotto l’effetto dei neutroni prodotti dalla reazione di fusione, produca trizio da reimmettere come combustibile nel ciclo di produzione dell’energia, come si vede nella figura qui sotto, tratta da un articolo che spiega abbastanza bene le difficoltà legate all’utilizzo del trizio come combustibile.

Insomma, produrre trizio utilizzabile per la reazione è di per sé una sfida molto complessa, che la progettazione ingegneristica del reattore dovrà risolvere contemporaneamente a quella, più comunemente discussa, di rendere il bilancio energetico della reazione sufficientemente vantaggioso. Un reattore che produce il proprio stesso combustibile ricorda un po’ la vecchia storia del Barone di Münchhausen che si solleva tirando i lacci dei suoi stessi stivali; nel nostro caso, sappiamo che la reazione è realizzabile, ma la soluzione tecnica non è bell’e pronta.

La seconda considerazione è che, assistendo al video della conferenza stampa tenuta per l’annuncio, è difficile non essere colpiti dal rilievo che non solo la Segretaria dell’Energia del governo USA ma anche gli altri speaker, più “tecnici”, hanno dato alle ricadute che la tecnologia appena sperimentata avrà a beneficio della sicurezza nazionale, che tradotto significa a beneficio del deterrente nucleare USA. Insomma, è chiaro che il programma NIF ha per il governo USA anche, o forse innanzitutto, una valenza strategica militare, e non mi sentirei quindi di affermare che i finanziamenti del governo per la ricerca nel campo della fusione a scopi esclusivamente civili saranno altrettanto cospicui e stabili. Le enormi difficoltà tecniche che devono ancora essere superate per raggiungere la disponibilità di centrali commerciali a fusione richiedono imponenti finanziamenti, che non è scontato siano approvati nel futuro come nel passato. Da questo punto di vista, può essere confortante vedere che siamo arrivati al punto che anche aziende private cominciano a investire capitali importanti nelle tecnologie di fusione.

Vorrei concludere questo articolo, che certamente lascia molti punti non discussi, con una notazione personale. Quando ho cominciato a interessarmi di scienza, nella Fisica c’erano alcune grandi questioni aperte che poi ci hanno accompagnato per decenni; negli ultimi anni, alcune hanno trovato o stanno trovando una soluzione: il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, la massa dei neutrini, la natura dei buchi neri, ora l’ “accensione” di una reazione di fusione autosostenibile. Forse diventare vecchi significa ricevere risposte alle proprie domande?