A proposito di offerta di lavoro “congrua”

La polemica

Una polemica di questi giorni riguarda un’ulteriore proposta di modifica al Reddito di Cittadinanza che toglie il vincolo della congruità fra offerta di lavoro e percezione del reddito. Il percettore dovrà accettare qualunque lavoro, pena la perdita del beneficio, anche se “non congruo”. La norma, assieme a tutta la legge di bilancio, deve ancora essere approvata, ma il governo imporrà il voto di fiducia e quindi dovrebbe essere cosa fatta.

Le polemiche sono state aperte specialmente da Conte, ovviamente, che parla di follia e dichiara, fra le altre cose:

Dire che i più indigenti devono accettare qualsiasi proposta significa distruggere l’ascensore sociale, riguarda tutti e siamo alla follia pura. (fonte)

Conte ha esemplificato questa ignominia con l’ingegnere del sud costretto, da questa proposta iniqua, ad accettare di fare il cameriere al nord…; gli ha risposto il sottosegretario Durigon che questa ipotesi è un’assurdità perché

L’offerta congrua che abbiamo in mente prevede che qualsiasi persona, anche laureata, se gli offrono un posto anche di cameriere casomai vicino casa è giusto che la accetti, perché se uno prende dei soldi pubblici non credo che possa essere schizzinoso. Il criterio della territorialità resta anche perché una persona non può andare a Trieste per due giorni se è di Napoli, tranquillizzerei Conte. (fonte)

Per capire il senso della risposta di Durigon occorre ripassare la definizione di “offerta di lavoro congrua” riportata nella pagina sul reddito di cittadinanza del Ministero del lavoro:

Viene considerata la coerenza tra l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate; la distanza del luogo di lavoro dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico; la durata della fruizione del beneficio.
Rispetto alla distanza del luogo di lavoro: è congrua un’offerta entro 80 chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta; ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di seconda offerta; in caso di rinnovo del beneficio è congrua un’offerta in qualsiasi parte del territorio italiano, anche nel caso di prima offerta. In caso di rapporto di lavoro a tempo determinato o a tempo parziale, l’offerta è congrua quando il luogo di lavoro non dista più di ottanta chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o è comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, in caso sia di prima sia di seconda offerta.
Se nel nucleo familiare sono presenti persone con disabilità, la distanza non può eccedere i 100 chilometri dalla residenza del beneficiario. Se nel nucleo familiare sono presenti figli minori – anche qualora i genitori siano legalmente separati – non operano le disposizioni previste in caso di rinnovo del beneficio. Queste particolari deroghe operano solo nei primi ventiquattro mesi dall’inizio della fruizione del beneficio, anche in caso di rinnovo. (grassetto nel testo; fonte).

Viene da osservare come la definizione si perda in cavillose questioni di chilometri e minuti, relativamente alla distanza, mentre sbriga in mezza riga la “coerenza tra l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate”.

Quindi, in conclusione: il percettore di RdC deve accettare qualunque lavoro gli venga proposto, purché vicino a casa.

Due storie vere

Prima storia. Mi sono sposato giovane, ero appena laureato e abitavo in una Regione diversa da quella dov’ero nato e cresciuto. Per alcuni anni ho fatto: il cameriere, il pizzaiolo, il barista, il custode del campo da tennis, mentre facevo lavoretti saltuari “congrui” con la mia laurea, di solito sottopagati, brevi e disagevoli (e io, scemo, non capivo di essere sfruttato ed ero felice per le opportunità). Poi ho vinto un concorso pubblico che mi costringeva, sei giorni alla settimana, a viaggiare con la mia auto personale per una distanza e un tempo che la norma sul RdC riportata sopra considera limiti estremi se fatti con mezzi pubblici, coi quali io avrei impiegato almeno il doppio del tempo. Dopo anni di quella vita e varie fasi (anche più comode), mi sono dimesso dall’impiego pubblico e come libero professionista ho passato venticinque anni su treni e aerei per viaggiare in tutta Italia (e all’estero) seguendo il lavoro dove c’era. Memorabili quegli anni dove partivo da Perugia (casa) la domenica sera, arrivavo a Milano la mattina di lunedì dove avevo una società da gestire, a metà settimana da lì prendevo un altro treno per andare a fare lezione a Trieste (ero solo un misero professore a contratto), e infine tornavo a casa venerdì sera. Anni di vita così, lavorando in treno, studiando in albergo…

Seconda storia. Molti anni fa conobbi un architetto cinese, ancora giovane ma non giovanissimo, che aveva lasciato l’avviato studio col fratello, a Nanchino, ed era venuto in Italia perché voleva fare la scuola di cinematografia di Roma; il suo sogno era girare documentari sulle minoranze etniche cinesi. Per mantenersi faceva il fattorino delle pizze, il massaggiatore, e qualunque cosa trovasse. Dopo qualche anno ha conosciuto una studentessa giapponese (lui non parlava giapponese, lei non capiva il cinese; parlavano fra loro in uno stentatissimo italiano ma si sa, l’amore…) ed è tornato in Cina dove ha aperto una società di facilitazione d’affari fra cinesi e italiani. Direte: “Ah, beh… ma i cinesi, si sa…”; e io vi rispondo: “Appunto: la volontà dei cinesi è proverbiale e si vede dove sono arrivati. In altre cose no, ma su questo piano prendiamoli come esempio”.

Riflessioni conclusive

  1. Il lavoro è un diritto, sì, ma in senso astratto e ideale (come abbiamo scritto, Stefano Machera e io, in questo libro); se iniziamo a pensare che il lavoro sia anche un dovere, la questione cambia prospettiva. E’ un dovere dare il proprio contributo alla società, è un dovere sostenere la propria famiglia, e se il lavoro è dignità dell’individuo, allora è assurdo fare classifiche fra lavori dignitosi oppure no;
  2. il lavoro non manca, in Italia. Manca il lavoro bello, comodo, ben pagato e per niente faticoso, mentre c’è abbondanza di lavoro non coperto (dati Istat) in posizioni non qualificate e a termine. Si parla di poco meno di mezzo milione di posti di lavoro che le aziende non riescono a ricoprire, e che vengono rifiutate per molteplici motivi, alcuni certamente validi, fra i quali: 1) quel lavoro non è “congruo” con i desideri e le aspettative del giovine; 2) accettando quel lavoro si perde il beneficio del RdC, che sarà probabilmente inferiore ma consente di fare lavoretti in nero e comodi comodi;
  3. se sei un ingegnere, molto difficilmente non trovi lavoro (fonte); se sei un laureato con la triennale in comunicazione, è probabilmente molto difficile trovarlo (in cosa consiste un lavoro “congruo” per un giovane con la triennale in comunicazione? Boh…); se sei un perito meccanico è facile trovare lavoro (fonte), se hai abbandonato dopo la terza media è difficile, salvo adattarsi, appunto, e “imparare un mestiere”. In Italia quindi, oltre ad esserci molto lavoro disponibile per le basse qualifiche (lavori che in troppi si rifiutano di fare), c’è lavoro per qualifiche “alte”, specie nel settore tecnico (in Italia siamo all’85% di discrepanza fra figure ricercate con competenze medio-alte e quelle effettivamente disponibili – fonte); certo, bisogna avere sacrificato tempo e meningi per studiare;
  4. è indubbio che fra i ceti più svantaggiati è difficile permettere al figlio promettente di fare ingegneria presso la San’Anna di Pisa. Che ci sia una correlazione fra situazione economica famigliare, percorso di scolarizzazione dei figli e loro auspicato successivo successo professione è una nota questione che riguarda i diritti (questo sì), la dignità (questo sì), le pari opportunità (senza dubbio) ma che non pertiene al tema del RdC. Le ingiustizie sociali vanno combattute con vigore e sincero impegno, proprio a partire dalla possibilità, per i meritevoli, di perseguire un titolo di studio migliore, ma questa è un altra questione;
  5. il Reddito di Cittadinanza, peraltro, è un sussidio pagato con soldi pubblici. Questa idea che ciò che è “pubblico” sia di qualcun altro, e quindi, potendo, bisogna approfittarne, è una delle cause del declino italiano. I soldi pubblici sono soldi dei contribuenti, sono per esempio anche soldi miei. Quei soldi, frutto di sacrifici di chi le tasse le paga, sono a disposizione del politico per fare le strade e gli ospedali, per dare borse di studio ai meritevoli o pagare decentemente i professori; oppure possono essere destinati al RdC; non è chiedere troppo mettere delle regole e fare dei controlli.
  6. Come fin troppe volte scritto su Hic Rhodus: le persone in condizioni disagiate devono assolutamente essere aiutate dallo Stato: i poveri, i disabili, i senzatetto, gli ex detenuti… Le persone in condizioni di disparità devono vedere tali condizioni abbattute: le donne, i giovani… Tutto giusto. Talmente giusto che non si fa e si preferisce declinare le ingiustizie in demagogia. E poiché i bisogni sono tanti, tantissimi, e le risorse poche, pochissime, occorre fare delle scelte: ogni reddito di cittadinanza dato a chi non ne ha diritto (gli scandali in questo senso non fanno neppure più notizia) sono stati sottratti a un vero povero che non sa come sfamare i figli. Ogni reddito di cittadinanza dato a un giovinotto che non trova “congruo” faticare un pochino, tanto mangia e dorme dalla mamma e qualche lavoretto in nero per le sigarette lo trova, è uno scandalo inaccettabile che deve essere sanato.