L’Italia è come Capitol City, e Sanremo è il nostro Caesar Flickerman

Mentre scrivo questo articolo, mancano poco più di 24 ore all’inizio dell’ultima puntata di Sanremo. Uno spettacolo che non ho mai visto in vita mia (e che di certo non inizierò a guardare domani sera), ma in cui inevitabilmente capita di “imbattermi” ogni anno, visto che rientro nel novero degli sparuti masochisti che seguono l’attualità in Italia. Perché in effetti nel Belpaese, come ogni anno, questo è il periodo in cui non si parla d’altro; i servizi su Sanremo aprono i telegiornali, riempiono le prime pagine dei giornali, i nomi dei cantanti intasano la lista delle tendenze su Twitter, e immagino che ormai nemmeno TikTok sia immune.
Ma allora, vi chiederete, se questa solfa si ripete ogni anno identica a sé stessa, perché disturbarsi a scriverci un articolo?

La risposta è che quest’anno c’è stato un episodio che ha mostrato, più nitidamente che mai in passato, cosa è diventato questo Paese, e quanto il Festival della canzone ne sia uno specchio: mi riferisco naturalmente alla decisione di non far intervenire in collegamento video il Presidente ucraino Zelensky. Nel Paese con l’opinione pubblica più filo-russa d’Europa, varie sono state le scuse accampate da chi non ha voluto il collegamento, ma la principale è consistita nell’asserire che Sanremo è un evento leggero e gioioso, un’innocente gara canora organizzata per regalare al popolo qualche serata di spensieratezza; ergo, sarebbe stato fuori luogo (pardon, fuori contesto) intristire improvvisamente gli animi degli italiani con un monologo incentrato su cose brutte come ospedali bombardati, bambini deportati e civili uccisi.
Ora, datosi che – come detto sopra – ciò che accade a Sanremo diventa ogni anno argomento da prima pagina, anche coloro che – come il sottoscritto – non ne hanno mai visto una puntata sanno che, in realtà, su quel palco si è spesso parlato – e non solo tramite i testi delle canzoni in gara – di politica, di problemi sociali e di temi “alti”. Anzi, lo si è fatto proprio perché qualcuno, ai piani alti della TV di Stato, avvertiva l’esigenza di cambiare la percezione popolare del Festival: non più “solo canzonette”, ma uno spettacolo in grado di intervallare la gara canora con momenti di riflessione su argomenti seri. Così sul palco dell’Ariston si son tenuti monologhi sul ruolo della donna, sul razzismo, sui gay e su tante altre questioni “alte”; monologhi che sono stati pressoché sempre un concentrato di banalità e retorica, “coraggiosi” quel pochissimo che basta a far indignare l’Adinolfi o il Cruciani di turno, regalando allo spettatore medio la piacevole sensazione di sentirsi almeno migliore di loro.

Quest’anno, tuttavia, credo che si sia toccato l’apice dell’ipocrisia e del grottesco, soprattutto nella prima serata. Il fu Roberto Benigni ha inaugurato la kermesse ribadendo, per l’ennesima volta, quant’è bella la nostra la Costituzione (anzi, è la più bella del mondo). E lo è perché – badate bene – afferma degli splendidi principi, tra cui la libertà di parola e il ripudio della guerra (naturalmente Benigni ha citato solo il primo comma dell’articolo 11: il secondo – quello che ci permette di aiutare l’Ucraina e far parte della NATO – non lo cita mai nessuno). Sono certo che l’ex comico si sarà letto anche tutte le altre Costituzioni del mondo, per affermare che la nostra è la più bella; sono altresì certo che saprebbe spiegare perché questa splendida Costituzione è stata modificata più di 20 volte, da quando è entrata in vigore; sono certissimo che saprebbe argomentare quanto sia funzionale il bicameralismo paritario, o che saprebbe mostrarci quanta bellezza ci sia nel Titolo V, dopo la riscrittura nel 2001. Soprattutto, sono convinto che saprebbe convincerci del fatto che i suddetti splendidi principi, a partire da quello sulla libertà di espressione, oltre che enunciati vengano anche applicati; impresa non facile, visto che in Italia le intimidazioni ai giornalisti sono in crescita vertiginosa da anni, in particolare per mezzo delle querele temerarie e strumentali.

Ma per questi dettagli non c’è spazio, sul palco dell’Ariston. Quel palco è la vasca in cui sguazzano intrattenitori anziani, incartapecoriti e imbellettati, saltuariamente affiancati da esemplari di specie esotiche (la giovane influencer divenuta milionaria grazie a quella cosa misteriosa chiamata Instagram, la pallavolista che è – in un colpo solo – donna, lesbica e di colore). Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente uno splendido articolo pubblicato su Linkiesta nel 2015 da Andrea Coccia, in cui i giovani europei venivano paragonati alla decadente popolazione di Capitol City, citando la serie Hunger Games. Per chi non l’avesse presente: Hunger Games è un romanzo distopico ambientato in un’America post apocalittica, in cui ogni anno va in scena l’orripilante reality show eponimo; 26 “tributi” (2 per ognuno dei 13 distretti in cui è suddivisa la nazione) vengono deportati nella capitale (Capitol City) e si sfidano in una gara di sopravvivenza, nella quale – letteralmente – vince l’ultimo che riesce a rimanere vivo. Nella trasposizione cinematografica, uno degli aspetti che impressiona maggiormente lo spettatore è il modo in cui vengono raffigurati gli abitanti della capitale (si veda l’immagine nell’articolo linkato), entusiasti spettatori del gioco al massacro: per dirlo con le parole di Coccia,

una goffa e viziata borghesia decadente, terrorizzata da tutto ciò che c’è oltre i confini della città e pronta ad abdicare alle libertà pur di vivere sotto il confortante ombrello dell’ordine e della sicurezza

Una borghesia rintanata nella sua piccola fortezza di lusso, mentre tutto intorno (nei 13 distretti) a farla da padrone sono la fame e la miseria. E c’è un personaggio, nella serie, che forse è il più iconico in assoluto: Caesar Flickerman, il “maestro di cerimonia”, conduttore televisivo che intervista come se nulla fosse i giovani destinati al macello, ma soprattutto instancabile esaltatore del regime e del suo Presidente, Coriolanus Snow.

Ecco, l’Italia di oggi mi ricorda un po’, mutatis mutandis, la Capitol City di Hunger Games. Un Paese anziano, cinico e indifferente alla sofferenza reale che c’è nel mondo (in particolare in Ucraina), potenzialmente disturbato dal sentire Zelensky parlare di morti veri e sofferenza altrettanto vera; un Paese che, più si allontana dal resto dell’occidente, più sente il bisogno di sentirsi dire dai giullari di corte che, in realtà, sono tutti gli altri a sbagliare, non noi. Cesserebbero perfino le guerre nel mondo, se solo tutti gli altri Paesi avessero l’umiltà di stracciare le loro costituzioni e copiare la nostra, o almeno l’articolo 11 (questo è ciò che Benigni ha realmente affermato, nella prima serata).
La differenza, purtroppo, è che da noi nessuna Katniss Everdeen arriverà ad intonare il canto della rivolta.