Nel corporativismo si vede la vera cultura fascista del governo Meloni

Da quando il governo Meloni si è insediato (ma a dire il vero già da molti mesi prima) nel nostro Paese si sono sprecati i dibattiti sul rischio di un ritorno del fascismo, o, se non altro, di “derive autoritarie”. Ultimo in ordine cronologico a paventare questo pericolo è stato Prodi, commentando la decisione del governo di depotenziare la Corte dei Conti nei controlli sui progetti relativi al PNRR.

Ora, la mia personalissima opinione coincide con quella espressa svariate volte qui su Hic Rhodus (ad esempio in questo articolo): pur essendo oggettivo che l’attuale primo partito del Paese si richiami ad una tradizione politica post fascista (molto più vicina all’MSI che ad Alleanza Nazionale), è altrettanto evidente che un rischio reale di tornare ad un regime dittatoriale non esiste. La ragione principale, per me, risiede nel fatto che abbiamo una Costituzione pensata appositamente per metterci al riparo da quel rischio; non era così negli anni ‘20 del ‘900, ai tempi del flessibilissimo Statuto Albertino. Concordo anche sul fatto che il continuo gridare al fascismo da parte della sinistra (che in alcuni casi tocca punte di ridicolaggine estrema, come in occasione del presunto saluto al Duce durante una parata militare) sia parecchio controproducente.

Ciononostante, esiste un metaforico terreno su cui la cultura fascista di questo governo emerge in tutta la sua chiarezza, senza che la Costituzione-più-bella-al-mondo possa far nulla per impedirlo: il corporativismo economico. L’idea, cioè, che il compito dello Stato sia quello di proteggere le imprese italiane – soprattutto se organizzate in confederazioni – dalla concorrenza, specie se portata avanti da multinazionali straniere.

Esempi di questo atteggiamento se ne trovano molti. Il primo e più macroscopico è quello dei balneari. Non potendo più rimandare l’attuazione della direttiva Bolkestein, il Governo Meloni pare aver trovato l’escamotage per aggirarla: limitare le aste alle concessioni rilasciate a partire dal 2009. Commenta Beppe Nelli su La Nazione:

“Curiosamente”, pare che tutte le concessioni balneari della Versilia siano datate anteriormente a quell’anno fatidico.

Quanto all’altra storica corporazione italica che pare invincibile, i tassisti, nulla di nuovo sul fronte occidentale: Uber (più precisamente Uberpop) continuerà ad essere vietato in Italia, mentre in altre capitali europee fornisce una valida alternativa al servizio di taxi.

Due situazioni che hanno in comune non solo l’essere cristallizzate da decenni, ma di incidere pesantemente su quello che, a detta di molti, dovrebbe essere “il nostro petrolio”: il turismo. Difficile infatti pensare che ai turisti piaccia pagare cifre folli un ombrellone, o pagare obbligatoriamente in contanti un taxi che curiosamente ha sempre il POS non funzionante quel giorno.

Ma a queste concessioni clientelari per così dire “storiche” l’attuale Governo sta pensando di aggiungerne altre, assai gustose. Si pensi ad esempio allo “stop ai soggiorni-lampo”, gentile perifrasi per indicare la crociata contro AirBnB, o meglio contro chi la usa per affittare degli immobili ai turisti. L’intenzione del Governo pare essere quella di obbligare, nei centri storici delle città, ad affittare gli immobili per almeno due notti. In più dovrebbe arrivare una cosa chiamata Codice identificativo nazionale, l’immancabile banca dati degli immobili affittati e le ancor più immancabili multe fino a 10.000€ per chi non rispetta queste leggi. Come dite? Vi sembra un regalo alla Federalberghi? Probabilmente lo è davvero, ma i beneficiari non sembrano soddisfatti:

Considerato che la permanenza media negli esercizi ricettivi italiani è di 3,3 notti, affermare che il soggiorno nelle locazioni turistiche non può essere inferiore a due notti suona come una presa in giro, in quanto significa che la nuova normativa si applicherà solo su a una minima parte dei flussi turistici.

Con un post su Facebook, questa proposta di legge è stata così commentata dall’Istituto Liberale:

Questa forma di lobbismo non è stata inventata oggi: a inizio ‘900, gli allevatori di cavalli negli USA fecero pressione per far approvare una legge che obbligasse le automobili a circolare alla velocità massima di 10 km/h, quella comunemente adottata dalle carrozze. Questa legge aveva l’intento di eliminare il vantaggio competitivo delle automobili rispetto alle carrozze.

In questo specifico caso, tuttavia, c’è anche l’aggravante dell’ipocrisia: quella per cui il fine della legge sarebbe di far fronte al caro affitti, con riferimenti più o meno espliciti alle proteste degli studenti universitari, che si accampano in tenda per denunciare il problema. È evidente che affitti di due notti non riguardano gli studenti universitari, bensì i turisti. I quali, dal canto loro, tramite AirBnB possono trovare sistemazioni nei centri storici a prezzi più convenienti.

Ma il corporativismo amorale e tecnofobico del governo non riguarda solo il mondo del turismo. Si pensi allo stop alla produzione della cosiddetta “carne sintetica”; in quel caso il Ministro Lollobrigida ha candidamente ammesso che tale decisione è nata “dalle istanze delle associazioni di categoria”, oltre che – a suo dire – da Comuni e Regioni. Più di recente lo stesso Lollobrigida è tornato sull’argomento, sbandierando un rapporto dell’OMS che, nella più bonaria delle ipotesi, il Ministro sembra non aver letto bene.
Vietato dunque produrre in Italia la carne artificiale (ma ancora consentito importarla dall’estero); una tecnologia che potrebbe dare un contributo fondamentale alla lotta al cambiamento climatico, se è vero che la produzione di carne bovina ha un impatto notevole in termini di consumo idrico, deforestazione ed emissioni di C02.

Di esempi come questi se ne potrebbero citare molti altri, purtroppo. La legge Levi del 2011, per esempio, stabilì il divieto di apporre sconti sui libri superiori al 15% del prezzo di copertina. La ratio? Aiutare le piccole librerie fisiche a sopravvivere contro la grande distribuzione, specie quella online di Amazon.

Il “piccolo è bello” piace anche a sinistra. Ora, se a sinistra qualcuno fosse davvero intenzionato a fare politica, come auspicava Mattia Feltri nell’articolo linkato a inizio post, potrebbe partire da questi provvedimenti, visto che contribuiscono a non diminuire (se non ad alzare) il costo della vita e a mantenere improduttivi e inefficienti settori importanti dell’economia. Il problema è che non possono farlo, per il semplice motivo che questa visione del mondo è in larga parte condivisa anche in quello schieramento; e anzi, se allarghiamo lo sguardo possiamo notare che coloro che non la condividono sono solo i mitologici “4 gatti liberali”, ossia una sparutissima minoranza nel Paese. Quando è stata al governo, la sinistra ha tutelato le stesse corporazioni che ha tutelato la destra (balneari, tassisti, ambulanti); il provvedimento contro gli affitti brevi lo ha preso il sindaco di Firenze Nardella prima ancora che entri in vigore la legge nazionale.
A sinistra si vuol combattere contro le grandi multinazionali in quanto esse evaderebbero le tasse,
calpesterebbero i diritti dei lavoratori, devasterebbero l’ambiente e poi insomma il capitalismo è causa di tutti i mali del mondo; pazienza se le evidenze numeriche ci dicono che il grosso dell’evasione fiscale viene dai tanto idolatrati piccoli, e che i contratti a tempo indeterminato siano in maggior misura presenti nelle imprese medio-grandi che nelle piccole.
A destra si concorda tacitamente con tutto ciò, ma pubblicamente si parla poco di ambiente e diritti dei lavoratori, insistendo invece sulla difesa del piccolo commerciante compatriota che va difeso dalla concorrenza “sleale” di Amazon, del piccolo tassista da quella di Uber, l’albergatore da AirBnB, il falegname di una volta che non ce la fa più per colpa dell’Ikea. L’idea di fondo è che il cosiddetto “interesse dell’Italia” coincida con la somma degli interessi delle singole corporazioni.
Più in generale, quello che va difeso è il piccolo mondo antico italico tradizionale, con i suoi mille borghi da 100 anime, i suoi tradizionali usi e costumi, e appunto le sue corporazioni messe oggi in pericolo da mega-aziende assai meglio organizzate e che offrono servizi migliori a un prezzo più basso. Quasi superfluo ricordare che, di solito, il discorso si allarga a ben altri ambiti in cui le avite tradizioni sono messe a repentaglio: in sintesi estrema, questa modernità vuol farci diventare tutti omosessuali, vegani, politicamente corretti, e costringerci a guardare il calcio femminile.

Mussolini nel 1939 aveva trasformato Montecitorio nella Camera dei fasci e delle corporazioni: ad oggi, l’unica cosa ad esser cambiata è il nome dell’Istituzione che lì ha sede.