Davvero la complessità è solo una sciocca ideologia?

Leggo la recensione di un libro francese della filosofa Sophie Chassat, che spiegherebbe come la complessità, da concetto sociologico di piccolo raggio, sarebbe diventata un’ideologia paralizzante, perché se tutto è complesso nulla si può fare. Non ho letto il libro, ma solo l’articolo di Nicola Mirenzi che – vedo – scrive su varie testate occupandosi un po’ di tutto; non proprio il giornalista giusto sull’articolo giusto. Comunque, al netto di tutto quanto di buono avrà certamente scritto la Chassat, Mirenzi fa un bel po’ di confusione, e io ne approfitto per riparlare di uno dei miei argomenti preferiti.

Innanzitutto il concetto sociologico di ‘complessità sociale’ non è un sinonimo di complicatezza; le cose complicate non necessariamente sono complesse, mentre quelle complesse sono probabilmente anche complicate. Un orologio meccanico è certamente complicato, ma non complesso. Le equazioni di secondo grado sono complicate, ma non complesse. ‘Complicato’ rimanda, in qualche modo, al concetto di difficoltà, necessità di esperienza e studio; se le equazioni non le so fare diventano un ostacolo insormontabile, ma con un po’ di studio e pazienza le posso affrontare agevolmente, perché si fanno in un certo modo, sempre quello (idem per smontare e rimontare un orologio; per me una cosa impossibile, ma un bravo orologiaio lo fa ad occhi chiusi).

La complessità sociale, invece, rimanda all’irriducibilità di sistemi che non possono giungere a sintesi, perché agiscono su livelli differenti. L’insieme degli interessi individuali e di gruppo, impastati dalle differenze di valori, propensioni, culture, saperi, rendono complessa la società umana (e non, semplicemente, complicata) perché nessun punto mediano, nessuna sintesi “aritmetica” è possibile. Faccio un esempio: le istanze ecologiche, prese sul serio, implicano necessariamente un ripensamento industriale così radicale che, ragionevolmente, risulta impossibile, e non solo per la cupidigia degli industriale o per il liberismo cinico. D’altro verso, la dinamica tecnologico-industriale, lasciata libera di agire, lascia intravedere scenari catastrofici. Come conciliare ambiente e sviluppo, salute e progresso? Non c’è un punto intermedio in un’ipotetica linea, con l’ambiente a un capo e l’industria all’altro, tanto da poter dire “fissiamo la linea più o meno a metà, così un po’ sviluppiamo e un po’ salvaguardiamo”. I due ambiti (ecologico e industriale) non stanno sulla stessa linea, ma su linee diverse, ed è difficile trovare mediazioni stabili. Tutto ciò, poi, che ha a che fare con valori etici (cioè quasi tutto) si muove con una certa evidenza in “bolle” con una coerenza interna (forse, più o meno) indipendentemente dalla coerenze degli assetti valoriali di altre bolle; hai voglia a discutere fra residenti di bolle differenti (liberali e comunisti, credenti e atei, omofobi e gay…)!

Un elemento importante che Mirenzi attribuisce a Chassat è la conseguenza dell’eccessivo uso del concetto di complessità: lo scarico delle responsabilità:

Scrive Chassat che la complessità è diventato il “rifugio dell’ignoranza”, poiché smantellando la logica di Aristotele e Cartesio, e postulando che ogni cosa è interconnessa e impossibile da isolare da mille altre – e, dunque, non c’è effetto che abbia una causa precisa – si finisce per rinunciare alla possibilità stessa di comprendere il mondo. Ogni punto fermo nell’analisi diventa una semplificazione. Qualsiasi verità, un arbitrio. Stabilire una gerarchia di valori e opinioni, un’arroganza. “A forza di demonizzare ‘il paradigma della semplificazione’ come la barbarie della nostra civiltà”, scrive Chassat, “l’ideologia della complessità’ ha propagato tra i contemporanei la diffidenza verso ciò che è semplice, chiaro, netto”. 

E quindi:

Per cui, se l’alluvione travolge la Romagna, guai a cercare la responsabilità degli amministratori che non hanno alzato gli argini per proteggere le nutrie. Piuttosto, si è di fronte a un problema “assai più complesso”: “La distruttività del cambiamento climatico”. Di cui tu singolo uomo sei responsabile. Anche se non puoi farci niente.

A parte la disinvoltura delle semplificazioni che propone Mirenzi, che non so quanto appartengano veramente all’autrice originale, il punto è davvero interessante: se il mondo è così complesso, tanto da schiacciarmi e rendere inutile il mio agire sociale, perché mai avrei responsabilità su ciò che accade?

Il mio punto di vista, più e più volte ribadito su queste pagine, è che la complessità sociale ha raggiunto vette certamente ingovernabili: ci sono sistemi, e sistemi di sistemi, e interconnessioni, e retroazioni, e una crescente vastità di azioni sociali (individuali e collettive) che rendono improponibile, risibile, qualunque idea di controllo causale e meccanicistico della società umana (società in senso lato, quindi anche economia, industria etc.). Qui non c’entra affatto l’ideologismo: data una determinata definizione di complessità sociale, e applicandola alla realtà contemporanea, il risultato è quello; se il risultato appare diverso, è perché il concetto applicato, pur chiamandosi ‘complessità’, è qualcos’altro.

Ma questo vale per l’obsoleta idea di una meccanica sociale. La complessità è una sfida, io credo la più grande, la madre di tutte le sfide, che deve essere oggetto di attenzione e governo – diciamo così – di secondo livello. Voglio dire che la complessità, per definizione, non si governa, ma si può osservare, monitorare, valutare, nei sistemi, nei sotto-sistemi, nelle conseguenze pratiche delle azioni umane, nella predisposizione di indicatori, nell’approntamento di piani, nella gestione sempre perfezionata degli interventi sul territorio, e così via. Intendo: la complessità sociale ci sorprenderà sempre, ma almeno non lasciamo che ci devasti.

Il problema è in realtà irrisolvibile, perché i politici non hanno la più pallida idea di cosa significhi ‘complessità’ e, soprattutto, perché buttarla in caciara premia elettoralmente assai di più che avviare una lunghissima serie di riforme e interventi, complicati e costosi, di scarsa visibilità solo fra vent’anni.