La macchina dello Stato e l’era digitale

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Ci si lamenta molto della burocrazia e delle assurdità del funzionamento dello Stato. E di come questo sia irremediabilmente lontano dall’efficienza cui, apparentemente, siamo tutti abituati usando le nostre apparecchiature elettroniche personali.

Perché, per esempio, con il navigatore Google posso avere qualsiasi informazione per andare da qui a lì (beh, quasi sempre). E se per caso “lì” non c’è, mi adatto senza mugugnare, è “gratis” (non è vero, ma questo lo sanno in pochi). Invece capita che si scriva con grande risalto che lo Stato non riesca a sapere, per esempio, quanti e quali siano gli immobili di proprietà dei ministeri (attenzione, notizia presentata male e probabilmente non vera, esiste il catasto, ed è centralizzato) e ci si indigna.

Come è possibile? Come mai non c’è “un’app” per accedere, tutti noi, al registro dei beni dello Stato, o al casellario giudiziario, per sapere se la persona con la quale stiamo parlando (magari identificato tramite i google glass, che ne dite?) è un pericoloso pregiudicato?

Lo Stato funziona per leggi e competenze. Quindi tanto bene quanto sono fatte bene le leggi, e quanto le competenze sono distribuite in modo sensato ed efficace. Ed è regolato da una disciplina che si chiama Diritto Amministrativo (leggere in particolare la sezione “Principi”: “Le prerogative riconosciute all’Amministrazione sono circoscritte da ben precisi limiti, collegati, nel sistema giuridico italiano, al rispetto del principio costituzionale di legalità, secondo il quale l’amministrazione può esprimersi solo attraverso l’emanazione degli atti amministrativi previsti e tipizzati dalla legge (principio di tipicità) e al solo scopo di perseguire il fine indicato dalla legge (principio di nominatività).”

Insomma, per far funzionare bene lo Stato, occorre che le leggi siano fatte bene, e che siano applicate dai competenti organi dello Stato. E qui sorge un problema: chi fa le leggi? Ma che domande: i politici! È colpa loro se sono fatte male! Bene, si e no. Ovvero i politici, i nostri rappresentanti eletti con i nostri voti (è bene ricordarlo, perché siamo responsabili di chi eleggiamo) le propongono e le approvano. Ma le scrivono? No. Le leggi sono scritte, per gran parte, dalle strutture legali/normative dei Ministeri. In queste strutture è altissima la competenza legislativa, a presidio della non contradditorietà delle leggi, ma del tutto assente la conoscenza di quanto si può fare, tramite le attuali tecnologie e processi organizzativi, per modificare e migliorare il funzionamento dello Stato.

Passiamo a vedere quali sono gli enti che, fatta una legge, buona o non buona, non ha importanza, devono preoccuparsi di applicarla. La frammentazione delle responsabilità è elevatissima, in Italia, e questo è un fatto noto, di per sé sufficiente a spiegare la scarsa efficacia di molti provvedimenti (è finalmente arrivata a livello nazionale la consapevolezza  della follia introdotta dalla sciagurata riforma del titolo V della Costituzione), e questa frammentazione si manifesta chiaramente quando si tratta di scrivere i decreti attuativi, ovvero i provvedimenti che consentono di far passare una legge da “dichiarazione su carta” a processo operativo applicato dalle competenti strutture statali (a titolo di esempio, vi invito a leggere l’inizio di uno preso a caso, qui)

Cosa c’entra tutto questo con l’era digitale? Moltissimo. Per trasformare il modo di funzionare dello Stato da quello attuale, risalente, nei suoi principi di base, all’800 (tecnologie: carta, penna e diligenze) a oggi (tecnologie: ICT, information communication technology) occorre che le leggi siano pensate per modificare strutturalmente i processi della pubblica amministrazione e il modo con il quale sono offerti ai cittadini, utilizzando gli strumenti oggi disponibili. Fiumi di inchiostro, fisico e virtuale, sono stati impiegati per dire cosa si potrebbe fare: pochissimo è stato fatto effettivamente fatto.

Perché, vedete, modificare il funzionamento dello Stato significa agire su due cose molto rigide: la dsitribuzione delle competenze tra le strutture dello stato e il modo con il quale le persone lavorano (e di conseguenza le “rendite di posizione” che, a volte, traggono da come lavorano).

Perché occore modificare la distribuzione delle competenze? Perché di cosa siano responsabili i singoli uffici è stabilito per legge. Se quindi la tecnologia ci consentisse (come in effetti fa) di semplificare radicalmente il modo di “fare” qualcosa, ma le norme rimanessero le precedenti, qualsiasi investimento sarebbe insufficiente. Quello che cambierebbe sarebbe soltanto lo strumento con il quale si opera un processo pensato per carta e penna, con i punti di controllo pensati per impiegati e documenti, e nessun altro controllo e ottimizzazione possibile.

Non è detto del resto che questo processo di svecchiamento, spesso invocato quando noi siamo le vittime di lungaggini apparentemente incompresibili, sia ciò che effettivamente “la gente” voglia. Basta pensare da un lato alle miriadi di favoritismi, imbrogli e vessazioni che sono resi possibili dall’intervento umano “eccessivo” rispetto a quanto possibile e dall’altro al clamore (che evoca sempre lo spettro di scenari orwelliani di grande fratello) ogni volta che si parla di controllo computerizzato sui dati, per esempio della fiscalità, o qualsiasi altro settore pubblico. Vale la pena anche accennare anche al fatto che, mentre di un oggetto complesso come uno smartphone ormai nessuno legge il manuale, e passa direttamente a dire “perché c’è un’app per questo e quello”, se nella pubblica amministrazione si modifica una applicazione (non un processo, non sia mai detto!) anche in modo banale, fior di organizzazioni sindacali e di lavoratori sono pronti a dire che non possono utilizzarla senza una adeguata formazione (che costa, ogni volta, centinaia di migliaia di euro, se non milioni).

Di cosa si ha paura, quando si propongono punti di controllo e key perfomance indicator (KPI) per rendere un processo (dello Stato, quindi a favore dei cittadini) più efficiente?

Cosa servirebbe quindi? Pur sapendo di entrare nel campo della fantascienza politica, avremmo bisogno di una riforma di portata “napoleonica” del corpo legislativo dello stato, portata avanti non solo da politici e giuristi, certamente necessari, ma anche, con pari dignità, da figure (normalmente indicate con sciagurato termine come “tecniche”, come se i giuristi non fossero “tecnici” della loro materia) esperte di analisi di processo, delle potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche, e di dimensionamenti.

Non ho usato a caso la pesante espressione “delle potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche” perché, vedete, la soluzione non sta nella tecnologia A o B, come con triste frequenza si legge (per esempio, Apple, Microsoft, Oracle, IBM, OpenSource etc…). Anzi, da molti punti di vista, l’utilizzo di una delle tante tecnologie è, ai fini del risultato, indifferente. Quello che conta è il sapere come utilizzare il potenziale delle tecnologie in modo ottimale, su larghissima scala: questo non significa essere “tecnici” ICT, ma ingegneri di processi e di informazioni, che siano in grado di vedere sia le potenzialità che i punti di debolezza delle varie soluzioni e scegliere quindi per il meglio. Un esempio di come dovrebbe essere “visto” un tema che include le tecnologie è il voto elettronico, di cui si parla con allarmante faciloneria, senza prendere in considerazione temi elementari che sono a conoscenza di persone che di mestiere fanno, appunto, gli ingegneri di processo (mentre scrivo si è presentato l’interessante caso della vulnerabilità planetaria su un componente critico di sicurezza detto heartbleed: ve lo immaginate scoperto dopo una elezione a “democrazia diretta”?).

Processi ed informazioni sono due modi complementari di vedere la realtà di una organizzazione, che può essere modellata sia come funzioni che modificano le informazioni, sia come informazioni che attraversano funzioni per perseguire uno scopo. Il primo approccio è ormai datato, e inefficiente. Il secondo permette di concentrarsi su quello che effettivamente significano le informazioni, e modellare le organizzazioni in modo ottimale per l’uso che ne debbono fare (si eliminano così in modo diretto tutte le ridondanze funzionali).

Non è un caso che le grandi aziende internazionali si stiano dotando di quello che viene definito CDS, Chief Data Scientist, e che il deficit mondiale di professionalità nel settore dell’analisi dati sia di centinaia di migliaia di figure di alto profilo. Non è neppure un caso che molti paesi si siano dotati a livello governativo di un CIO, Chief Information Officer, per coordinare tutti gli interventi di natura di ottimizzazione tecnologica, interventi che sono ontologicamente traversali alle tradizionali complesse e ormai spesso ingovernabili responsabilità funzionali.

Tutto ciò non è solo teoria, da un lato perché sta avvenendo, con successo, nei paesi più avanzati, dall’altro perché in ballo ci sono miliardi di euro di investimenti, che possono essere o alla base di una nazione efficiente e di servizi efficaci per i cittadini e le imprese, che possono quindi dedicare i loro sforzi ad attività produttive (e avere risparmi di un numero difficilmente quantificabile ma certamente molto superiore di miliardi evitando attività inutili e consentendo minori costi al sistema dei cittadini e delle aziende), oppure essere gettati nel calderone della tradizionale “automazione”, che ha terminato di produrre effetti benefici, con il suo paradigma, all’incirca venti anni fa.

Non conta tanto il trend discendente, che nelle condizioni attuali potrebbe essere persino un bene, quanto il valore assoluto di poco più di 5 Miliardi di euro/anno. Che sono molti soldi, ma se andiamo a vedere come si pone l’Italia rispetto ad altri paesi del mondo per spesa ICT rispetto alle spese totali della PA centrale  (2013) otteniamo un dato sconfortante (dati tratti dall’interessantissimo documento OECD “Government at a Glance 2013“):

Attenzione a non saltare alla demagogica conclusione dell'”occorre incrementare le spese ICT”. Le spese devono essere correlate ai risultati, e, ahinoi, la Germania spende in ICT meno di noi, con risultati (da scriverci sopra un altro articolo) alquanto migliori.

L’innovazione vera non si misura solo dalla percentuale di territorio coperto dalla larga banda, o dal numero dei data center: questa è informatizzazione di base, o ottimizzazione dei costi. Si misura dai processi radicalmente nuovi che introduce nel funzionamento dello Stato, e da quanti processi vecchi archivia per sempre. E questo si fa solo alterando la geografia del potere (disegnata da competenze e leggi), come è evidente leggendo il mandato del CIO del Governo USA: “The US CIO oversees federal technology spending, federal IT policy, and strategic planning of all Federal IT investments. The CIO is charged with establishing a government-wide enterprise architecture that ensures system interoperability, information-sharing, and maintains effective information security and privacy controls across the Federal Government.”