La mediazione di Papa Francesco, l’apertura storica di Obama che ha chiesto al Congresso la rimozione dell’embargo, adesso la visita ufficiale di Raúl in Vaticano. Un’epoca durata mezzo secolo sta velocemente lasciando il posto a uno scenario più nuovo e più giusto, perché niente di peggio dell’embargo ha minato la credibilità americana in tutto il Centro e Sud America e costretto un popolo alla fame, quella vera, per ragioni ideologiche che se avevano una qualche giustificazione decenni fa, da decenni sono solo una crudeltà insensata. Ideologiche per l’America anticomunista, ma ideologiche anche per il regime cubano; la grande forza di suggestione della Cuba rivoluzionaria si deve anche al fatto che pur nell’estrema difficoltà ha assicurato a tutti i cittadini un sistema di servizi di base quando negli altri paesi le popolazioni versavano in condizioni di miseria e abbandono. Ma erano altri tempi, e l’esperienza delle giovani democrazie latinoamericane, spesso a guida socialista, ha dimostrato che il modello cubano non è più un’alternativa, nemmeno per le forze di sinistra di quel subcontinente.
Ho avuto la fortuna di fare un’importante esperienza professionale a Cuba parecchi anni fa, fra Marzo e Giugno 2003. Due interi e lunghi mesi passati a valutare l’efficacia di un grande progetto di cooperazione multilaterale che mi ha portato a girare tutta l’isola visitando scuole, ospedali, fattorie modello e molte altre realtà con pochissimi giorni di riposo dove ho potuto vedere anche l’aspetto turistico (Varadero, Cajo Levisa). Fra l’altro ho usufruito dell’ospitalità di amici cubani, conosciuti precedentemente, coi quali ho potuto parlare liberamente della situazione cubana.
Felice per la svolta cubana qui vorrei portare una piccola testimonianza; nulla di strutturato, niente dati, solo un ricordo un po’ aneddotico. Devo premettere che pochi mesi prima del mio viaggio cubano il regime castrista aveva avviata una fase repressiva e fucilati tre cubani che avevano cercato di fuggire attirando critiche e ritorsioni diplomatiche da tutto l’Occidente; il clima era particolarmente pesante anche (e forse specialmente) per chi, come me, era in qualche modo in missione ufficiale per conto di un paese ostile.
Ho impiegato molti anni per fare pace con Cuba. Dopo una prima settimana di permanenza la scorza gioiosa e solare che attira turisti superficiali era dissolta e ne percepivo la realtà malinconica, la tristezza e a tratti la disperazione. Dopo due settimane avrei pagato per tornare a casa di corsa e dopo oltre un mese, anche a causa delle conseguenze del mio lavoro (di cui dirò), odiavo cuba, odiavo i cubani e odiavo sinceramente Castro e la sua rivoluzione, che solo poche settimane prima ammiravo nella sua cornice romantica e in buona parte falsa che attira tantissimi giovani occidentali, l’epopea rivoluzionaria, il Che, i barbudos… anch’io ero andato a Cuba con una sovrastruttura ideologica che mi induceva simpatia per l’Isola, ma dopo poche settimane quella sovrastruttura era frantumata sotto il maglio di una realtà che appariva chiara a chi la voleva vedere. Ho impiegato anni per far pace con Cuba.
La realtà di un regime chiuso è (era?) evidente anche semplicemente passeggiando per le strade dell’affascinante Habana Vieja; poliziotti (o erano dell’esercito? Non ricordo) a ogni incrocio. Feticci della rivoluzione e bandiere. Spie. Se dico “spie” è perché parlo di esperienze vissute personalmente, oltre che narrate dai miei amici cubani, che hanno a che fare col capillare controllo sociale del territorio operato dai cubani stessi, reciprocamente controllori e controllati. La mia presenza a Cuba in casa di amici, per esempio, è stata subito segnalata al Comitato di Difesa della Rivoluzione del Quartiere creando loro pericolose difficoltà che li costrinse, loro malgrado, a rinunciare alla loro ospitalità e tenermi lontano da loro. Altri membri dell’équipe di valutazione – in virtù di altre storie che evito di raccontare – furono intimiditi. Tutti noi dell’équipe fummo oggetto di pressioni crescenti e sgradevoli man mano che il nostro lavoro di valutazione progrediva mostrando – come usualmente avviene in questi casi – anche elementi critici che infastidivano il regime. Poiché in quegli stessi anni frequentavo un altro regime comunista, la Cina, la differenza che osservavo era stridente. In Cina viaggi dove vuoi, parli con chi vuoi, i tassisti dicono peste e corna del governo, non vedi un poliziotto o una bandiera rossa neanche a cercarla, salvo a piazza Tienanmen vicino a mausoleo di Mao. I cinesi viaggiano dove pare a loro e fanno quel che pare a loro (tranne criticare il regime e fare politica, ovviamente) mentre nella Cuba che io ho visto la gabbia era stretta e la repressione molto evidente.
La tragedia della doppia economia che prevedeva una doppia moneta (ora abolita) assieme alla vicinanza al dollaro degli odiati americani è stata una tragedia nazionale. La maggior parte della popolazione veniva pagata in pesos di scarso valore, mentre l’economia a ridosso del turismo veniva pagata in più ricchi pesos convertibili (ufficialmente equiparati al dollaro) ma, specialmente, fra mance e altri “servizi” di cui dirò, una parte di popolazione aveva accesso ai dollari. Ho conosciuto personalmente brillanti laureati, medici, biologi con stipendio equivalente a 30 dollari al mese fare i camerieri o prostituirsi per guadagnare in un giorno la stessa somma in valuta pregiata e garantire il cibo ai figli, in particolare la carne. La povertà estrema dei cubani, drammaticamente aggravata dall’ottuso e inaccettabile bloqueo americano, non conduceva solo all’ingegnosità folkloristica con la quale, per esempio, tenevano in vita stupende auto americane degli anni ’50 ma alla continua e spasmodica ricerca di modi per sopravvivere, proprio nel senso molto semplice di mangiare, fare un pranzo e una cena, garantirli ai propri figli, e questi modi per sopravvivere, nelle località turistiche e all’Avana, hanno dovuto fare i conti con la propria morale.
Un popolo prostituito. Questo è un paragrafo triste dei miei ricordi. Un paragrafo dove l’unico giudizio morale che voglio far trasparire è la mia solidarietà e comprensione per un popolo prigioniero e affamato. Che ha dovuto fare i conti con l’inimmaginabile; l’Unione Sovietica, unico partner commerciale di una Cuba assediata, crolla nel 1991, e l’Isola resta priva di una qualunque economia foss’anche di sussistenza. Inizia il tremendo periodo speciale che i miei amici cubani mi hanno raccontato nelle sue tinte più drammatiche: fame. Solo fame. Niente lavoro (i miei amici sono professionisti laureati), niente fonti di reddito, niente cibo. Uscire da casa alla mattina cercando qualunque cosa per portare a casa un pezzo di pane. Niente aiuti dall’URSS e bloqueo americano. Molti hanno fatto cose inimmaginabili. I turisti (americani ed europei) presi d’assalto per racimolare qualche dollaro. Nel 2003, quando io andai a Cuba, il periodo speciale era finito e si viveva una povertà “normale”, ma il combinato disposto di doppia economia e miseria portava ancora a palesi forme di vita ai margini della dignità. Ricordo che camminavo lungo le strade dell’Avana vicino ai muri e a occhi bassi. Guai incrociare gli occhi di una ragazza all’Avana, verso sera, semmai andando a mangiare a un paladar; quella ragazza mi si sarebbe avventata addosso offrendosi. La prostituzione è (era?) enormemente diffusa, compresa quella minorile, almeno a giudicare da quei vecchi europei che facevano i leziosi con giovanissime ragazze, nelle loro vestine consumate, nei bar della città, alla luce del sole. E le truffe; ci sono diverse tipiche truffe compiute da cubani ai danni di occidentali; sono sempre quelle e funzionano (con me hanno funzionato). E furti; difficile non essere derubati a Cuba, semmai piccoli furtarelli privi di importanza per noi…
Amore e odio Yankee. Una delle cose che meno sopportavo era comunque la sudditanza esplicita verso gli odiati Yankee, presenti sull’isola (vietata ufficialmente al turismo dagli USA in maniera ridicola, perché gli statunitensi prendevano voli diretti dal Canada per Varadero) in qualità di addetti all’ambasciata o cose simili. Solitamente all’arrivo di un gruppetto di americani tutte le attenzioni erano per loro; il cibo sempre scarso anche nei ristoranti per occidentali appariva magicamente nella tavola degli yankee. Musica, sorrisi e bonitas a profusione.
Tutta questa desolazione (almeno, io la vivevo come tale) si manifestava in un clima favoloso (a Primavera, poi sarebbe iniziata l’afosissima e insopportabile Estate), con una colonna sonora di salsa suonata a tutto volume ventiquattr’ore al giorno, sigari favolosi (all’epoca fumavo cubani, e vi assicuro che fumati là, freschi di produzione, erano una meraviglia), donne belle di qualunque sfumatura di nocciola e per niente imbarazzate dall’eccesso di pinguedine che sembra un destino delle cubane dopo la maturità, gente desiderosa di piacerti, simpatica, solare, che se trova un europeo seriamente interessato a parlare si apre, comunica, informa. In un Paese dove una macchina primordiale per costruire un mattone alla volta era considerata una tecnologia d’avanguardia, perché non avevano altro. In un Paese che all’Avana è iconografia di se stessa (il museo della rivoluzione, i luoghi di Hemingway…) mentre appena fuori è natura tropicale ancora selvaggia e spesso non sfruttata. In un Paese dove ci si continua a chiedere se alla morte di Castro sarebbe tornato ad essere il puttanaio degli Stati Uniti.
L’apertura (tardiva) degli Stati Uniti e la risposta di Castro lasciano qualche spiraglio. Confesso che mi sembra uno spiraglio piccolo e che non scommetterei sul futuro di Cuba. La fine del bloqueo porterà ovviamente benefici tangibili al popolo cubano, e un allentamento del regime un benessere diffuso. Ma il destino a medio termine mi pare oscuro. Tanto più sarà veloce il trapasso dal regime castrista (se non altro per la morte dei due fratelli) a una fase più “liberale” sotto la tutela americana, tanto più la fame antica, la morale dimenticata, il desiderio di riscatto, provocherà una forte dissoluzione di quel che resta di tessuto sociale, orgoglio nazionale, competenza professionale (Cuba vanta un alto livello scolastico e sanitario, rispetto alla media dell’America Latina) a favore del dollaro. Cuba rischia di diventare un gigantesco parco divertimenti americano, dove gioco d’azzardo e prostituzione potrebbe avere la meglio come ai tempi di Batista. E questa è una colpa storica dei Castro e dei loro sodali. Certo il bloqueo; certo il periodo speciale. Ma non avere letto le trasformazioni del mondo, non avere favorito (se non timidamente e contraddittoriamente) lo sviluppo dell’impresa e di un’economia minimamente strutturata, non avere previsto il crollo del dopo-Fidel, sono colpe gravi che ora il solo Raúl, probabilmente, non riuscirà a recuperare.
Risorse:
- Mimmo Càndito, Due vie al (post) comunismo: ecco perché L’Avana non è Pechino, “La Stampa”, 13 Maggio 2015;
- Antonio Moscato, Cuba – Usa – Vaticano. Attento Raul, “AgoraVox”, 12 Maggio 2015.