Gli eredi dei Cobas. Nuovi conflitti distributivi nell’Italia del 2015

sciopero-trasporti_3

L’estate è notoriamente calda, in Italia. Non solo per via dell’anticiclone Caronte, che ha portato per molti giorni temperature tropicali, ma anche per le proteste diffuse che hanno interrotto alcuni servizi pubblici essenziali. Le cronache dei giornali hanno ricordato negli ultimi giorni i fatti di Pompei Scavi, lo sciopero di piloti e assistenti di volo dell’Alitalia, lo sciopero bianco dei macchinisti e degli autisti dell’ATAC romana.

Ricordo sommariamente questi eventi.

Alcuni sindacati (Fp Cisl, Filp e Unsa) hanno indetto per le ore 9.00 del 24 luglio un’assemblea dei lavoratori del sito archeologico di Pompei Scavi, con conseguente chiusura dei cancelli dello stesso. Decisione comunicata all’ultimo momento, senza avvertire i tour operator né esporre cartelli alle biglietterie. Circa duemila visitatori sono stati così lasciati fuori dal sito, a godere la temperatura estiva partenopea. Quale la probabile ragione di questo comportamento? Contrastare la concorrenza della Scabec (società partecipata della Regione Campania), cui sarebbero state affidate aperture straordinarie notturne del sito archeologico.

Agli scioperi indetti dall’Anpac, un sindacato di categoria di piloti e assistenti di volo, gli italiani sono abituati. E’ l’ennesimo indetto nel 2015, dopo il sostanziale fallimento dell’Alitalia e il salvataggio (con la sottoscrizione di un aumento di capitale per un controvalore di 387,5 milioni di € e altri investimenti aggiuntivi per oltre 170 milioni) da parte di Etihad Airways. Usi e costumi di Anpac non sembrano cambiati nel tempo: le aquile selvagge d’antan non ci hanno abbandonato, specie d’estate.

Anche a Roma negli ultimi mesi, a causa di assemblee sindacali, i visitatori sono stati fermati davanti a cancelli chiusi, al Colosseo e alla Galleria Borghese. In questi casi è stato tuttavia esposto un avviso — bilingue, addirittura.

b153ab0ff0df4b072ecd1c8bfec5f8ec-017-kVWD--258x258@IlSole24Ore-WebIl caso di cui i quotidiani si sono più occupati di recente è però quello dell’azienda pubblica di trasporti romana, l’ormai famigerata Atac. Con un organico di circa 12.000 dipendenti, l’Atac è la maggior azienda di trasporto pubblico in Italia. Negli ultimi dieci anni, tra deficit e sussidi regionali e comunali, ha perso circa 6,4 miliardi di euro. L’azienda perde d’altronde quattrini da tempo immemorabile, se mai li ha guadagnati. Alcuni resoconti giornalistici, ben documentati, di questo disastro economico e sociale si trovano quiqui e qui. Veniamo alle relazioni industriali. Se diamo retta alle cronache, all’Atac i contratti collettivi sono gestiti direttamente da sindacati e politici, scavalcando la direzione aziendale. Un risultato di queste pratiche è l’orario di lavoro di autisti di bus e conduttori di veicoli su ferro: a Roma 736 ore l’anno (circa 67 ore il mese, su 11 mesi formalmente lavorativi; 3,5 ore il giorno, su 20 giorni lavorativi il mese). A Napoli sono invece di 850 ore, all’ATM di Milano 1200 (il 63% in più che a Roma).

L’impegno della Giunta del Comune di Roma ha ottenuto un primo risultato il 18 luglio 2015, con la stipulazione di un nuovo contratto collettivo, sottoscritto dai sindacati confederali. Esso prevede tra l’altro il prolungamento dell’orario di lavoro a 950 ore annue e l’estensione a macchinisti e autisti di un badge per la rilevazione giornaliera d’inizio e termine dell’attività lavorativa. Quest’accordo ha irritato macchinisti della metropolitana e autisti dei bus in disaccordo con le organizzazioni sindacali confederali. Molti di essi hanno immediatamente risposto con forme di boicottaggio o, per usare un termine più neutro, con uno sciopero bianco — assai efficace. Con le parole di un cronista attento e preciso, le conseguenze sono presto dette: “I treni, quando arrivano, sono stracolmi, il più delle volte senza aria condizionata, e spesso bisogna attendere nelle stazioni sovraffollate il successivo per riuscire a salire. Poi sui vagoni si sta stretti come in una scatola di sardine”.

Descritte in breve queste azioni collettive, ne esamino ora alcuni caratteri salienti:

  1. chi aderisce allo sciopero bianco a Roma (o alle assemblee sindacali) non paga alcun costo per la partecipazione all’azione collettiva: non c’è uno sciopero, non c’è alcuna ritenuta sulla busta paga. Non è inoltre tenuto a rispettare un contratto collettivo firmato da sindacati con cui dissente. Gode infine dei vantaggi derivanti dall’eventuale successo dell’azione collettiva. Per usare un termine tecnico, quelli elencati sono altrettanti incentivi selettivi all’azione — riguardanti cioè solo i membri di un gruppo circoscritto di lavoratori.
  2. Si può così apprezzare la razionalità di questi attori e l’adeguatezza delle strategie da essi utilizzate nel conflitto. Queste considerazioni — che non equivalgono a un giudizio morale — consentono di rendere intellegibili il senso e l’orientamento degli attori nel conflitto.
  3. Quella dei diretti interessati è una risposta razionale anche da altri punti di vista. Con lo sciopero bianco o la partecipazione ad assemblee si evitano infatti i costi di uno sciopero, regolato tra l’altro da una legge del 1990 riguardante i servizi pubblici essenziali. E’ inoltre possibile prolungare la protesta per un certo periodo (nel caso dei macchinisti Atac continua ininterrottamente dai primi giorni di luglio 2015) o indirla senza preavviso. Tutti i costi dell’azione collettiva sono scaricati su utenti e aziende. Come scriveva diversi lustri fa il sociologo Aris Accornero: “sciopero selvaggio, l’utente è un ostaggio”. Qualcosa però è cambiato: oggi non c’è sciopero, neppure selvaggio, ma il passeggero resta in ostaggio.
  4. C_4_foto_1366998_imageSi comprende quindi meglio l’apparente indifferenza degli attori in conflitto rispetto ai danni inflitti non solo agli utenti e all’azienda, ma anche e soprattutto alla società nazionale nel suo complesso. I danni inferti all’immagine dell’Italia e alla sua capitale dai resoconti pubblicati su grandi giornali internazionali ne costituiscono solo una parte. A questi attori interessano inoltre assai poco le accuse d’irresponsabilità espresse da utenti e stampa, da una parte della classe politica e talvolta anche dai sindacati confederali (la Federazione Pubblica della CISL ha ad esempio ritirato la sua adesione all’assemblea di Pompei e ha preso una posizione nettamente contraria).
  5. Si comprendono anche le ragioni della persistenza del conflitto nel tempo. Conflitti per molti versi simili, ma non identici, sono presenti in Italia almeno dal 1987, quando esplosero le proteste dei Cobas della scuola, dei sindacati autonomi nelle FF.SS. e di altri sindacati autonomi.
  6. Le proteste — pur irate o risentite — degli utenti dei servizi pubblici hanno in questi casi, e in molti altri del passato, un’efficacia limitata o molto limitata. Gli utenti fanno parte di un gruppo troppo ampio per agire in modo organizzato, a meno che qualche imprenditore politico trovi la formula adatta per condurlo all’azione collettiva — come avvenne in passato in Francia.
  7. Una caratteristica ricorrente (assai importante, come vedremo) di queste azioni collettive è essere promosse da piccole formazioni sindacali, spesso di mestiere più che di categoria, operanti il più delle volte a livello locale. Si tratta di coalizioni il cui scopo è distribuire benefici e privilegi a favore di un numero ristretto di associati. Un esempio tra i tanti è il sindacato Cambia-Menti M410, cui aderiscono macchinisti e autisti dell’Atac, fondato alla fine del 2013. Le dimensioni ridotte sono alla base dei maggiori successi dell’azione collettiva di questi gruppi occupazionali (ad esempio, i macchinisti) rispetto alle difficoltà e alle divisioni interne sperimentate da gruppi più ampi (ad esempio gli insegnanti).
  8. Il settore economico in cui questo tipo di azioni collettive è più frequente è quello dei servizi pubblici, in particolare dei trasporti nazionali e locali. La maggior parte degli scioperi sono indetti da sigle sindacali minoritarie. Per accertarlo è sufficiente consultare i siti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti o della Commissione di Garanzia degli Scioperi.
  9. Il criterio invocato per legittimare queste rivendicazioni da parte dei loro sostenitori non è il merito o la professionalità, né la competenza, le credenziali scolastiche o l’anzianità lavorativa. Si tratta invece di un altro criterio di giustizia distributiva, riguardante l’importanza funzionale di alcune occupazioni nella divisione sociale del lavoro. Non si tratta cioè di rivendicare, a sostegno delle proprie richieste, la quantità o la qualità del contributo offerto, ma di esibire piuttosto il vulnus differenziale di cui si dispone — ovvero la capacità di causare danni agli altri mediante la sospensione del lavoro o, ancor meglio, grazie all’omissione di specifiche attività. Con le parole di Frank Parkin — un sociologo inglese recentemente scomparso — si tratta qui di una “teoria sotterranea della giustizia distributiva”. Sotterranea perché è difficile esplicitarla e soprattutto legittimarla mediante argomentazioni convincenti. Eppure funziona: macchinisti, tassisti, autotrasportatori, piloti (ma anche farmacisti, notai, dipendenti del Parlamento — tanto per fare altri esempi) godono di una quota di reddito nazionale di valore superiore a quella dei contributi da loro forniti al prodotto interno lordo, proprio grazie all’uso di quella posizione.

Quest’ultima osservazione ci segnala come le azioni collettive considerate sono solo un sottoinsieme di pratiche diffuse, in altre forme, tra i membri di altre occupazioni e in altri settori economici. Abbiamo quindi bisogno di un quadro di riferimento più ampio. Approfondirò questi aspetti in un articolo successivo.

Il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo (c) con il segretario generale della Cgil Susanna Camusso (d) ed il segretario generale della Cisl Annamaria Furlan (s), durante la segreteria unitaria Cgil-Cisl-Uil, Roma, 13 luglio 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

Contributo scritto per Hic Rhodus da Alberto Baldissera
Negli ultimi trent’anni ha più volte descritto il ruolo delle
corporazioni (che lui preferisce chiamare ‘coalizioni distributive’)
e delle loro pratiche spartitorie nel declino economico, sociale 
e civile del nostro paese.