Dal 4 al 6 dicembre scorsi, ho assistito ai lavori del convegno “Analysis and Activism: Social and Political Contributions of Jungian Psychology”, svoltosi a Roma e organizzato dalla IAAP (International Association for Analytical Psychology). Tra le altre cose, mi ha attirato l’insolito accostamento tra la scuola analitica che si richiama all’esempio di Carl Gustav Jung, una personalità di sconfinata cultura e grande profondità di pensiero, e l’attivismo sociale, un’attività pragmatica quant’altre mai. Il programma (di cui ho potuto ovviamente seguire solo una piccola parte) era effettivamente estremamente variegato, e qui vorrei parlare di uno solo tra i molti, interessanti argomenti toccati: l’assistenza psicologica ai migranti e ai profughi.
A questo proposito, l’intervento più significativo che ho ascoltato è stato quello di Renos Papadopoulos, un professore di origine cipriota che insegna all’Università dell’Essex dove dirige corsi di specializzazione in assistenza ai rifugiati; proverò a riassumerne qui alcuni dei contenuti più rilevanti. Il punto di partenza di Papadopoulos è nella constatazione che spesso gli stessi operatori dei punti di assistenza a migranti e profughi hanno la discutibile tendenza a “patologizzare” le esperienze che queste persone hanno dovuto attraversare, considerandole quasi automaticamente come bisognose di trattamento perché traumatizzate dalle vicende dolorose che inevitabilmente accompagnano le migrazioni.
Eppure, è chiaro che non tutti gli stress, per quanto intensi e sconvolgenti, danno luogo a una Sindrome Post-Traumatica da Stress (PTSD), che effettivamente richiede un trattamento terapeutico specialistico; secondo Papadopoulos, anzi, solo circa tra il 5% e il 10% dei migranti sono realmente affetti da questo tipo di sindrome. Il resto, in realtà, è costituito da “normali” esseri umani che soffrono, ma senza per questo sviluppare una reazione patologica. Qualche riferimento alla contraddittorietà dei dati e dei criteri relativi all’effettiva incidenza della PTSD si trova ad esempio in questo articolo di rassegna, che osserva come “l’incidenza delle patologie psichiche tra diverse popolazioni di rifugiati sia estremamente variabile”, e tra le possibili cause indica la dubbia applicabilità “del modello del trauma e di altri metodi di valutazione e modelli di salute mentale tipicamente occidentali a popolazioni non-occidentali”. Anche un altro articolo sull’argomento, frutto di studi sulle popolazioni ruandesi e bosniache, afferma esplicitamente che “per la grande maggioranza dei sopravvissuti [provenienti da zone di guerra, N.d.R.] lo stress posttraumatico è una pseudopatologia, una riclassificazione della comprensibile sofferenza della guerra sotto forma di un problema tecnico al quale si possano applicare soluzioni tecniche di breve periodo come il counselling”.
Papadopoulos, pur essendo lui stesso uno psicoterapeuta, spesso impegnato per conto delle Nazioni Unite in aree colpite da “emergenze umanitarie”, ritiene che ci sia appunto una tendenza, sia da parte degli “addetti ai lavori” che da parte del pubblico, a “medicalizzare e patologizzare la sofferenza umana”, come scriveva già in un suo articolo di diversi anni fa (da cui sono tratte anche le prossime citazioni, se non diversamente specificato). Questo atteggiamento ha diverse conseguenze negative, che riassumerei così:
- Non riuscire a cogliere, e ad aiutare i soggetti a cogliere, gli elementi trasformativi di queste esperienze traumatiche, i cui esiti possono includere, e spesso includono, conquiste positive in termini di resilienza e riprogettazione della propria esistenza, quello che Papadopoulos definisce “Adversity-Activated Development”. La resilienza e l’AAD non sono comunque la stessa cosa: “la caratteristica chiave della resilienza è che conserva qualità che esistevano già prima, mentre l’AAD introduce caratteristiche nuove che non esistevano prima dell’avversità”.
- Segmentare e ridurre l’assistenza ai migranti a una sequenza di interventi “riabilitativi”, gestendo quelle persone attraverso protocolli e metodologie, più rassicuranti per chi li applica, ma inadeguati alla complessità e alla ricchezza di un’esperienza non riducibile a un disordine psicologico. Questo approccio erroneo rischia di avere effetti negativi proprio sulle risorse che potrebbero indirizzare le avversità verso un esito favorevole. Infatti, ad esempio, la resilienza nel complesso “non è il risultato di una forza individuale, ma è essenzialmente un processo relazionale. Questo significa che una persona è più resiliente se riesce a instaurare un rapporto di sostegno reciproco e collaborativo con gli altri”. In ultima analisi, con la comunità dei “non terapeuti professionisti”.
In estrema sintesi, Papadopoulos invita chi si occupa di assistere migranti e rifugiati a guardarli come persone integre, con davanti a sé un potenziale percorso di crescita, e non come pazienti da reintegrare; di conseguenza, l’aiuto di cui costoro hanno certamente bisogno sarà più spesso un conforto e un sostegno umano che professionale, e tale da poter essere più efficace quanto più ampiamente coinvolga la comunità che accoglie e non solo gli operatori specializzati. D’altra parte, i migranti che sfuggano a una indebita condizione di “pazienti” possono più facilmente rappresentare una risorsa anche per la società che li ospita.
Questa conferenza, che nel convegno era accompagnata da case studies oltre che da filmati di interventi sul campo che hanno evidenziato anche l’importante ruolo svolto dagli interpreti che accompagnano i terapeuti, è stata certamente tra le più persuasive ed emozionanti che abbia ascoltato in quei giorni, anche perché ha capovolto alcuni preconcetti da cui a mia volta non ero esente.