SuperTrump

super_trump__by_gaudog-d9hu0fvCon il cosiddetto Supermartedì, che ha assegnato i delegati di undici Stati, le primarie in USA hanno fornito indicazioni che, se non definitive, sono ormai certamente nette, e lasciano profilare uno scontro per la Presidenza tra Hillary Clinton e Donald Trump, due candidati diversissimi, tanto da non sembrare davvero il prodotto di uno stesso sistema politico. Mentre Hillary Clinton è una “predestinata”, legata a doppio filo a tutti i “poteri forti”, Trump è un outsider che corre contro l’establishment del suo stesso partito, un’anomalia tanto evidente da sollecitare una riflessione sul perché e sul come sia potuto arrivare così vicino alla poltrona più ambita del mondo (e, chissà, sedervisi?).

Chiariamo subito un punto: questo post non ha lo scopo di rappresentare un “endorsement” di alcuno dei candidati, che per la verità appaiono tutti più ricchi di debolezze che di punti di forza. Se tra i Democratici Bernie Sanders sembra francamente fuori posto in una corsa alla Casa Bianca, eppure è stato sinora in grado di vincere in cinque Stati, questo è anche un segno dei limiti della candidatura di Hillary Clinton. A mio avviso, la Clinton è infatti una pessima candidata alla presidenza, priva di qualsiasi slancio innovativo (di fatto, anche per compiacere l’elettorato nero, Hillary Clinton ha affermato ripetutamente la sua continuità con la politica di Barack Obama) e solidamente ancorata agli interessi delle grandi lobby economico-finanziarie (la Clinton in due anni tra il 2013 e il 2015 ha guadagnato oltre 21 milioni di dollari tenendo conferenze private, prevalentemente a grandi aziende e organizzazioni finanziarie come Goldman Sacks, Deutsche Bank, e così via). È piuttosto ironico che a rendere quasi inattaccabile la nomination della Clinton siano gli elettorati delle minoranze, soprattutto quella nera, che è ben difficile che abbiano davvero interesse a far vincere quella che è universalmente considerata “la candidata di Wall Street”. Anche l’ultima giornata di primarie, sabato 5 marzo, ha confermato sia i punti di forza che di debolezza della Clinton che ha vinto in Louisiana e ha perso in Nebraska e Kansas, il che per una candidata considerata ormai nettamente favorita non mi sembra un trionfo.

Eppure, anche una vecchia conoscenza con un armadio quattro stagioni pieno di scheletri come la Clinton appare una candidata modello se confrontata con Donald Trump. Nel campo repubblicano, infatti, il Supermartedì ha dimostrato che tra i mediocri avversari di Trump nessuno emerge chiaramente, tantomeno Marco Rubio, che pure è il prediletto dall’establishment del partito ma ora è stato superato anche dall’altro outsider Ted Cruz. Addirittura, contro l’eterodosso magnate delle costruzioni negli ultimissimi giorni si sono mobilitati in un attacco disperato alcuni leader storici del Grand Old Party, tra cui Mitt Romney che ha chiamato Trump “un falso e un cialtrone”, adeguandosi in fondo allo stile dello stesso Trump; in una mossa senza precedenti, 109 esponenti Repubblicani di primo piano, impegnati con diversi incarichi nei settori della politica estera e della sicurezza nazionale, hanno firmato una lettera aperta in cui si oppongono alla candidatura di Trump che stigmatizzano come ambiguo e grossolano sui temi di politica estera, sostenitore della tortura, discriminatore contro i musulmani, ammiratore di un dittatore come Putin, e, infine, semplicemente disonesto. Addirittura, c’è chi ventila la possibilità che il consolidarsi di una candidatura di Trump possa condurre parti consistenti dell’apparato del partito a sostenere un candidato “indipendente”, provocando in pratica una sorta di scissione. Un primo effetto del fuoco di sbarramento “interno” contro Trump s’è visto nelle ultimissime primarie del 5 marzo, nelle quali Trump ha vinto “solo” due Stati su quattro, con Cruz che si è imposto nel Maine e in Kansas, dove l’affluenza alle urne è stata molto alta per delle primarie repubblicane. Ma, a meno che tutti gli altri candidati si ritirino immediatamente facendo convergere su Cruz i loro consensi, l’ostacolo Cruz non basterà a evitare che Trump entri nella Convention con più delegati di chiunque altro, e allora sarà difficile per il partito negargli la candidatura, per quanto indigesta possa essere.

In effetti, Donald Trump è il prototipo del candidato impresentabile: è rozzo (gli osservatori hanno conteggiato 199 bersagli dei suoi insulti solo su Twitter), politicamente analfabeta (e non solo: ha dichiarato di amare gli ignoranti), sembra intenzionato ad applicare alla Casa Bianca lo stesso stile autocratico che per 12 anni ne ha fatto la temutissima star del reality The Apprentice e che è in un certo senso è ricordato dal recente “incidente” provocato dallo stesso Trump che ha retweetato la famosa frase mussoliniana “Meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora” riproposta dal singolare account @ilduce2016 che poi si è scoperto essere stato creato apposta per “indurre in tentazione” Trump.tweet Che a Trump la retorica del titanismo che caratterizza questo motto non dispiaccia affatto è stato chiarito dallo stesso candidato, che ha spiegato che non ha motivo di pentirsi di averla condivisa su Twitter: “È un’ottima frase, molto interessante, e la conosco, so chi l’ha detta. Ma che differenza fa se a dirla è stato Mussolini o qualcun altro? È certamente una citazione molto interessante. Per questo probabilmente tra Facebook e Twitter ho 14 milioni di follower”. A mio avviso, questo riferimento ai Social è illuminante e ci tornerò su.

Insomma, Trump è proprio impresentabile, e chi di noi ricorda anche solo gli anni settanta fa sicuramente fatica a credere che un simile personaggio sia ormai arrivato a un passo dalla nomination, non nonostante ma proprio grazie a questa impresentabilità. Tutti i sondaggi dicono che Trump piace perché “dice pane al pane” ed è un outsider; è difficile quindi immaginare che i potenziali elettori di Trump si lascino dissuadere dalle prese di posizione contrarie proprio di quell’establishment di partito che mostrano di disprezzare, e l’impresentabile Trump ha buon gioco a trasformare questi attacchi in altrettante onorificenze, secondo un altro “interessante” motto di italico conio, quel “molti nemici, molto onore” che potrebbe piacergli quanto l’altro.

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I media americani hanno ovviamente sottolineato la “gaffe mussoliniana”

In questo quadro poco confortante, che presenta ancora molte incognite ma indica chiaramente in Trump il grande favorito per la nomination Repubblicana, ci sono osservatori che cercano di capire cosa diavolo stia succedendo. Per alcuni, il fenomeno-Trump è semplicemente il segnale finale di un lungo declino del GOP; per altri, Trump è la versione americana del populismo politico di cui abbiamo numerosi esempi in Europa; io credo che ci sia del vero in ciascuna di queste spiegazione, ma vorrei aggiungere una mia considerazione, partendo da un po’ indietro nel tempo.

Nel 1960,  la sfida per la Casa Bianca si svolse tra un solido candidato Repubblicano, il Vicepresidente uscente Richard Nixon, e un outsider Democratico, il più giovane e cattolico John Kennedy. Nixon sembrava in vantaggio, ma in quella campagna presidenziale ci fu una novità che cambiò l’esito delle elezioni e, non secondariamente, la Storia: per la prima volta, i due candidati si confrontarono in TV. Furono organizzati quattro dibattiti, ma quello decisivo fu il primo, in cui Kennedy si presentò rilassato, in ottima forma e abbronzato, mentre Nixon, convalescente da una piccola operazione, rifiutò di farsi truccare e apparì pallido, dimagrito e nervoso. Un’enorme audience di 70 milioni di telespettatori assistette alla trasmissione, e il vantaggio che Kennedy ne trasse fu decisivo ai fini dello stretto margine di voti che gli consentì di diventare Presidente.

Due fotogrammi del primo dibattito
Due fotogrammi del primo dibattito TV tra Nixon e Kennedy

Ebbene, io ho l’impressione che ci troviamo di fronte a una svolta simile. Generazioni di politici americani e poi europei hanno imparato come apparire davanti alle telecamere fiduciosi e rassicuranti, competenti e decisi, politicamente corretti ed eloquenti. Persino chi, come appunto Hillary Clinton, non ha certo il dono naturale di essere simpatico, “democratico” ed emotivamente vicina al pubblico, ha imparato a usare il mezzo televisivo come la candidata Democratica ha dimostrato, diffondendo uno spot elettorale in cui consola una ragazzina di origine messicana che teme di essere espulsa con la sua famiglia. La scena è falsa come una moneta da tre Euro, ma la Clinton è evidentemente molto più smaliziata di Angela Merkel, che, come ricorderete, di fronte a una ragazzina con un problema simile ebbe l’ingenuità di volerle spiegare perché la Germania non possa accogliere tutti i migranti.

Donald Trump, da parte sua, è tutt’altra specie di animale politico. Disprezza la political correctness, insulta gli avversari, litiga con i giornalisti (e ancor più con le giornaliste), è aggressivo e non fa nulla per apparire competente. Proprio per questo incarna, a mio avviso, il modello di comunicazione cui siamo stati abituati, e che abbiamo imparato a non rifiutare, nel nuovo millennio, “grazie” a reality show sempre più triviali e Social Media sempre più “urlati”. Su YouTube c’è un interessantissimo video che analizza una breve risposta di Trump alla domanda di un intervistatore televisivo a proposito del tono discriminatorio di molte prese di posizione di Trump nei confronti di immigrati e musulmani; l’autore dell’analisi osserva che la struttura delle frasi di Trump è elementare, priva di parole lunghe, subordinate e periodi complessi, e che alla fine di ogni semplice e breve frase Trump colloca una parola forte, come “problema”, “danno”, “causa”, “morire”, “feriti”, ecc. “Trump usa questa tecnica più di chiunque altro io abbia mai ascoltato”, commenta sempre l’autore del video.

Il testo della risposta di Trump
Il testo della risposta di Trump usata per l’analisi che citiamo

 

La mia idea è che Trump parli la lingua di Twitter. Sebbene pronunci ben 220 parole in un minuto, nessuna delle frasi da lui scelte è più lunga di 140 lettere, pochissime parole da lui usate hanno più di due sillabe, e tutte le frasi terminano con una parola a effetto. Trump è il “giudice cattivo” di un talent che si esprime nella lingua dei Social Media, senza circonlocuzioni o peli sulla lingua. Il fatto che lui parli in TV o scriva su Internet è irrilevante: lo stile di comunicazione che usa è distante da quello della Clinton (o anche di Obama) quanto nel 1960 il linguaggio verbale e non verbale del “giovane” Kennedy lo era da quello “pre-televisivo” di Nixon. Trump non è efficace nonostante la sua rozzezza, la sua scorrettezza e la sua superficialità (almeno apparente): è efficace proprio per tutte queste caratteristiche, che sarebbero state negative negli anni Settanta ma funzionano benissimo oggi, dopo che Reality Show e Internet ci hanno desensibilizzati ad abusi e violenze verbali e disabituati al ragionamento argomentato.

Dobbiamo quindi davvero prepararci a veder vincere Trump? Non è detto: Trump, anche se dovesse riuscire a vincere la nomination, sarà certamente un candidato “zoppo”, privo del sostegno di una fetta rilevante del partito, mentre Hillary Clinton avrà alle spalle, oltre all’influenza del marito, anche i potentati economici, il pieno appoggio dell’apparato del Partito Democratico e, last but not least, una profonda conoscenza della politica. Trump ha davvero una proposta politica inconsistente e pericolosa e per questo probabilmente è il più comodo avversario che la Clinton potesse desiderare, ma io scommetto che il suo modo di fare campagna elettorale non tramonterà con lui.