Ormai ci siamo abituati: ogni volta che si parla di argomenti che dovrebbero essere oggetto di una valutazione basata sui dati di fatto, si finisce in una querelle tutta dialettica, come se bastasse una buona o cattiva comunicazione a indirizzare i problemi in un senso o nell’altro.
Stavolta, e non per la prima volta, la discussione si è accesa sui dati relativi all’embrione di ripresa economica in cui l’Italia si trova, e in particolare sugli effetti del Jobs Act sull’occupazione. Addirittura, il Presidente del Consiglio Renzi ha annunciato un piano “antibufala” per contrastare la disinformazione che a suo dire viene fatta sull’operato del Governo. Ma è davvero così?
Certamente le voci discordanti sono molte, e, se c’è chi si lamenta di una presunta accondiscendenza dei mezzi di comunicazione verso Renzi e il suo governo, non si può dire che siano mancate le critiche. Alcune di esse, in particolare, si sono appuntate sui risultati economici e occupazionali delle politiche governative, soprattutto del Jobs Act e dei provvedimenti collaterali. Proviamo quindi a verificare se i dati siano a favore di Renzi, quando nel suo primo articolo anti-bufala rivendica “quasi un milione di contratti a tempo indeterminato in più”, e chiediamoci anche cosa stia accadendo al PIL.
Per quanto riguarda l’occupazione, le fonti di dati utili sono soprattutto due: l’Inps e l’Istat. Per una volta, anzi, direi più il primo che il secondo, anche se i dati che producono sono in parte complementari. Guardiamoli in un sintetico grafico prelevato da un ottimo articolo pubblicato su lavoce.info:
I dati sono abbastanza evidenti, ma se vogliamo semplificare possiamo cominciare guardando le due linee continue: quella rossa mostra un andamento moderatamente decrescente dei posti di lavoro a termine (inclusi i contratti di apprendistato), quella verde evidenzia la forte crescita dei posti a tempo “indeterminato” (col nuovo significato che questo termine assume dopo il Jobs Act). Anche a prima vista è chiaro che i posti di lavoro dipendente sono aumentati, e che un numero significativo di contratti a tempo determinato sono stati convertiti in contratti a tempo indeterminato.
Dunque ha ragione Renzi, e le critiche sono immotivate? Vediamo innanzitutto di quali critiche parliamo. Una categoria di critici (un esempio qui) punta sul ridimensionamento delle cifre, magari facendo riferimento a quelle Istat che sono leggermente più basse di quelle Inps, e ricordando che ci sono anche i lavoratori autonomi, che nel 2015 sono diminuiti, molto probabilmente anch’essi in parte assorbiti tra i nuovi lavoratori dipendenti. Sono tutte osservazioni più o meno pertinenti, ma che a mio avviso non modificano la sostanza dei dati.
Un’altra critica è quella che osserva che, dopo il picco di dicembre 2015, i dati Inps relativi a gennaio 2016 mostrano un netto calo dei nuovi contratti, anche rispetto allo stesso mese del 2015, e che in sostanza più che il Jobs Act a sostenere l’aumento dell’occupazione sono stati gli incentivi economici sotto forma di sgravi contributivi. Questo è senz’altro vero, ma va anche sottolineato che gli stessi dati Inps a gennaio 2016 evidenziano un calo delle cessazioni contrattuali rispetto a un anno prima, nonostante che il monte dei contratti complessivi sia aumentato, e che una parte di essi sia ora soggetto alle nuove norme sostitutive dell’Articolo 18.
Infine, c’è un fenomeno che è relativamente poco sottolineato, e che è stato, secondo me giustamente, preso in esame da alcuni osservatori come un aspetto poco apprezzabile delle ricadute delle riforme del Governo Renzi (e precedenti, in realtà), ed è il proliferare dei cosiddetti voucher, che rappresentano un modo semplice ed economico per pagare lavoratori occasionali, stagionali e simili. In realtà, il numero altissimo di voucher che è stato utilizzato in particolare nel 2015 è sicuramente segno di un uso improprio dello strumento, probabilmente per coprire occupazione “in nero”; sarebbe troppo lungo parlarne qui, e vi rimanderei agli articoli pubblicati ad esempio da La Stampa sull’argomento, ma stiamo in ogni caso parlando di lavoratori in più rispetto ai posti di lavoro di cui parlavo prima.
Tiriamo le somme: nel 2015 l’occupazione è salita significativamente, in particolare quella dipendente a tempo indeterminato, e, nonostante le nuove norme che rendono più facili i licenziamenti, non c’è segno di un incremento delle cessazioni di rapporti di lavoro. Questo è certamente dovuto più agli incentivi che alle nuove normative contrattuali introdotte dal Jobs Act, come è dimostrato dal picco di assunzioni in corrispondenza dello scorso dicembre; d’altra parte, secondo me non c’è un vero motivo per cui il Jobs Act da solo dovrebbe a breve termine far crescere in modo apprezzabile l’occupazione. Un’indicazione sui motivi alla base della crescita dei posti di lavoro ci è comunque offerta dall’Istat nella sua Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana di febbraio 2016, nella quale tra l’altro si riporta il risultato di un sondaggio effettuato presso le imprese, e i cui risultati sono mostrati nei due grafici qui sotto:
Assodato che i posti di lavoro sono effettivamente aumentati, e perché, la vera domanda è se questi nuovi posti di lavoro ci siano costati troppo, e se saranno stabili; da questo punto di vista, è chiaramente assurdo lamentarsi che nel 2016 le nuove assunzioni diminuiscano: è inevitabile e logico che lo facciano, quello che dobbiamo sperare è che i nuovi posti creati nel 2015 rimangano, e che siano produttivi.
Già, perché l’altra incognita è se l’aumento di posti di lavoro sia destinato a produrre nuova ricchezza. Il PIL nel 2015 è cresciuto, invertendo la tendenza recessiva, ma è cresciuto poco, meno dell’occupazione. Se il PIL non cresce, è matematicamente ovvio che l’aumento di posti di lavoro si tradurrà in un ulteriore calo della produttività, rendendo questi nuovi livelli occupazionali non sostenibili a medio-lungo termine. Questo è il vero nodo, che determinerà anche se il costoso investimento che il Governo ha scelto di fare con gli sgravi contributivi sarà stato oculato o meno. La timida ripresa del PIL nel 2015 è rappresentata in questo grafico sempre prelevato dal sito dell’Istat:
Insomma, si va avanti, ma piuttosto piano. La mia opinione è che, però, in Italia abbiamo la cattiva abitudine di aspettarci che sia il Governo a far crescere l’economia, magari aumentando la spesa pubblica. Invece a mio avviso l’unica cosa che davvero il Governo dovrebbe fare per l’economia (e che non sembra abbia voglia di fare) è tagliare la spesa pubblica (e possibilmente un po’ anche le tasse), e in particolare evitare che scattino gli aumenti di IVA e accise che erano previsti per il 2016 dalle clausole di salvaguardia e che la Legge di Stabilità prevede di evitare. Per il resto, a far crescere l’economia ci devono pensare le imprese e le altre forze produttive.
Per chiudere su una nota più ottimistica, citerei una recente previsione di Confcommercio (una fonte normalmente non troppo “filogovernativa”), che ha pubblicato una stima per l’incremento del PIL italiano nel 2016 pari all’1,6%, cifra che renderebbe sicuramente meno grigia la situazione della nostra economia. Speriamo che abbiano ragione loro…