Alla Oerlikon Graziano di Rivoli (Torino) e di Bari si deve fare la pipì tutti assieme. Per ogni turno gli operai avranno a disposizione due pause di nove minuti per fumare e andare in bagno.
Niente di male, in fondo in fondo, e anche i sindacati cercano di minimizzare. Ma la situazione si presta a qualche riflessione seria sull’imbarazzo che proviamo nel dover svolgere certe pratiche pubblicamente (non è il caso degli operai della Oerlikon Graziano, che avranno pure bagni che garantiscono un minimo di privacy). Pensateci bene: essendo una pratica universale dovrebbe essere considerata naturale, no? Perché nascondersi? Il problema non riguarda l’esposizione dei genitali ma l’atto in sé, che può arrivare a livelli fobici consistenti anche fra persone in intimità. Proprio per questo, probabilmente, il fare la pipì assieme, specie fra maschi, è quasi un rito, un po’ ruspante, da caserma, di affermazione gruppale, di “noi” sodali che facciamo anche questo assieme.
È scontato trattarsi di un fatto culturale. In Occidente fare pipì (e non solo quella) è qualcosa di sporco e molto intimo più o meno come in Giappone soffiarsi il naso (da non fare in pubblico) mentre in Cina è più che tollerato, almeno fra le classi popolari. Ricordo con divertito orrore i bagni maschili della stazione ferroviaria di Pechino, una quindicina di anni fa, dove di fronte alla lunga fila di orinatoi stavano gli uomini a una distanza di oltre mezzo metro. Mai capito il perché. Da quella distanza – rispettata da tutti – facevano partire il flusso centrando l’orinatoio e svolgendo il compito che li aveva condotti lì; per un ovvio principio idraulico però, essendo alla fine regolato da minor potenza, il flusso declinava sempre più finendo gli ultimi istanti per aspergere il tratto di pavimento fra orinatoio e piedi dell’utente. Naturalmente, un triste addetto ai bagli passava incessantemente uno straccio avanti e indietro, consentendo a queste dispersioni di distribuirsi uniformemente sul pavimento. Io facevo del mio meglio per stare più appiccicato possibile all’orinatoio, ma essere circondato da peni spruzzanti non mi faceva sentire del tutto a mio agio. C’è un analogo femminile: sempre in zone popolari e di campagna i bagni femminili non avevano porte e tutte le donne sedevano sulle loro tazze discorrendo amabilmente (testimonianza di mia moglie, che se la tenne stretta).
Che ci sia qualcosa di profondo, in questo rito della pipì in piedi, lo testimonia un altro fatto: non si potrà più irridere (maschilisticamente) una donna per il fatto che lei non può farlo. Oltre a varie guide pratiche per farla senza ausilii, oggi le nostre compagne hanno a disposizione dei fantastici dispositivi, simili a imbutini che sostanzialmente simulano un pene e consentono alle signore di far pipì in piedi senza sporcarsi. A questo punto anche le ragazze potranno finalmente urlare gioiose “Chi non p… in compagnia o è una ladra o è una spia!”
Indubbiamente un grande passo avanti nella parità di genere, e non sto affatto scherzando, perché da queste situazioni simboliche passa la consapevolezza della parità/disparità, e onestamente quello della pipì in piedi era uno degli ultimi vantaggi maschili.
Questo post scatologico trova un minimo di significato nella riflessione – più volte fatta su questo blog – del relativismo culturale e dell’estrema forza di alcune convenzioni. I bambini molto piccoli possono stare nudi al mare, ma se niente niente sono già grandicelli (6-7 anni anziché 2-4) allora no. Le femminucce, anche prepubere, è il caso che al mare indossino il due pezzi, anche se quello superiore non serve a nulla ed è ridicolo. Allattare in pubblico è giudicato sconveniente ai più, e questo è veramente incomprensibile vista la glorificazione retorica della maternità. Anzi, l’esposizione del seno, ritenuta una conquista alcuni decenni fa e depenalizzata dai codici occidentali, è scomparsa come prassi femminile anche nelle nostre spiagge. Non ci si scaccola in auto. Mettiamo una mascherina. Teniamo in tasca un prodotto igienizzante per pulirci quando tocchiamo superfici pubbliche ricche di germi. E via discorrendo queste convenzioni sempre più diffuse in Occidente.
Tutto questo riguarda il nostro tentativo di disfarci del nostro corpo. Non sopportiamo più di essere dei corpi, di avere una materialità naturale. Accettiamo corpi perfetti secondo criteri estetici imposti, anche se anoressici; scolpiamo (chi può) i corpi in palestra per gonfiarli nei punti giusti, li tatuiamo, foriamo con spilli, deformiamo (ne ho parlato tempo fa in altro post), modifichiamo i nasi, i seni, i glutei, spendiamo fortune per integratori, personal trainer, chirurghi… per dei corpi finti, astratti, ideali, asettici. Il nostro distacco col corpo, inclusa la sua caducità, si accompagna all’isolamento crescente: amicizie sì ma su Facebook, la partita sì ma in TV, a spasso in città ma con le cuffie, a cena da amici ma con l’occhio sullo smartphone.