Poco prima delle 17 di domenica 16 luglio, è successa una cosa in fondo abbastanza normale: Roger Federer ha vinto la finale del torneo di tennis di Wimbledon. Si è trattata dell’ottava vittoria per il campione svizzero, che peraltro ha sconfitto un avversario, il croato Marin Cilic, afflitto da un doloroso problema a un piede che ne ha limitato le possibilità.
Insomma, tutto come da copione: quello che è da molti considerato il miglior tennista di tutti i tempi ha ottenuto l’ennesimo alloro, il diciannovesimo titolo del cosiddetto Grande Slam, vinto senza cedere neanche un set agli avversari. L’epilogo atteso da tutti, inclusi i bookmaker inglesi che offrivano quote ben poco allettanti.
Perché allora parlarne qui, in un blog tutt’altro che specializzato in sport? La ragione in fondo non è nel numero delle vittorie di Federer, ma nell’immateriale che il tennista svizzero rappresenta.
Di quest’impalpabile ma ineludibile aura che accompagna Federer si è molto parlato e scritto. Forse la descrizione più compiuta e affascinante è quella del grande scrittore americano David Foster Wallace, autore di Infinite Jest, che nel 2006 pubblicò sulla rivista sportiva del New York Times un breve saggio (o un lungo articolo) dal titolo Federer come esperienza religiosa. Chissà cosa direbbe Wallace se potesse vedere che colui che nel 2006 definiva “il miglior tennista in attività e forse il migliore di sempre” undici anni dopo è ancora il migliore. Gli anni sono trascorsi, alcuni avversari hanno smesso e altri sono cresciuti, ma Federer è ancora inimitabile. Non imbattibile, ma inimitabile: come gioca è almeno altrettanto importante di quanto vinca, ed è molto più sorprendente e unico. Seguendo Wallace si potrebbe parlare di una manifestazione insuperabile e “metafisica” di “bellezza cinetica”, ma la verità è che quello che Federer dimostra, anche a 36 anni, è che la perfezione è possibile. Non è un miraggio mistificatorio: è lì, si può vederla, che duri un intero torneo o il tempo di un solo colpo.
- Una foto di Federer che accompagnava l’articolo di Wallace sul N.Y. Times Play Magazine
Lo racconta bene uno scrittore italiano come Alessandro Baricco parlando di come quest’anno abbia deciso di andare a vedere Federer a Wimbledon:
Quando ha staccato il primo rovescio — io ero a qualche metro — l’aria ne ha risentito, il mondo si è risistemato di un micromillimetro e io ho percepito il clack con cui quell’istante si incastrava nella mia personale collezione di istanti. Mi son voltato e, per quanto mi riguardava, potevo anche tornarmene a casa.
Ecco perché ho voluto scrivere questo breve post che, diversamente dai miei soliti, non snocciola dati (neanche quelli sui molti record detenuti da Federer) e non esprime giudizi critici su questo o quell’aspetto del nostro panorama politico-economico: semplicemente, perché fa bene a tutti sapere che è possibile,
magari solo per un momento, essere perfetti, fare qualcosa in piena armonia con la natura della cosa che viene fatta, come un rovescio che colga la palla col centro della racchetta, quello sweet spot che risuona in modo diverso e inconfondibile. In altre occasioni ho cercato di sostenere che l’aspirazione all’eccellenza è quello che può cambiare la nostra vita e il nostro mondo: il rifiuto della sciatteria e dell’approssimazione, della grossolanità tanto comune da passare ormai quasi inavvertita. Tutti noi pensiamo poco alla perfezione; poi però, ogni tanto, sentiamo quel suono inconfondibile, e ci voltiamo a guardare chi sia stato, e lo ringraziamo mentalmente di averci ricordato come la perfezione sia possibile.