Che l’Italia sia un paese non più così giovane è ormai sotto gli occhi di tutti. La crescita demografica si è sostanzialmente arrestata ed i gravi problemi occupazionali causano un progressivo spopolamento. Secondo i dati raccolti dal centro studi indipendente IDOS, nel 2016 a lasciare il paese sono stati ben 285 mila cittadini italiani. Si era riusciti a “far meglio” solo nel primo dopoguerra, quando gli emigranti nostrani erano ben 294 mila l’anno. Ad aumentare, però, non è solo il numero di persone che scelgono di lasciare l’Italia, ma anche e soprattutto la percentuale di questi in possesso di una laurea o un titolo superiore, oltre il 30%.
Circa un terzo degli Italiani va all’estero, per scelta o costrizione, e lo fa dopo aver ricevuto una formazione di alto livello, causando una fuga di competenze, ma anche un danno economico. L’investimento dello Stato nell’istruzione di un suo cittadino, dal primo giorno di scuola fino alla laurea o al dottorato, infatti, varia tra 158.000 e 228.000 euro.
Di per sé la “circolazione dei cervelli” non è un male, un periodo di permanenza e lavoro all’estero, soprattutto quando si parla di alta formazione, è utile quando non auspicabile. Il problema fondamentale è che, attualmente, non è circolare. Siamo bravissimi nell’incentivare i nostri esperti ad andare altrove, ma non possiamo dire lo stesso in senso opposto, ovvero nell’attirare esperti stranieri nel nostro paese. Il motivo di entrambe le cose è sostanzialmente lo stesso: l’ Italia non è competitiva in ricerca, innovazione e cultura.

Sgravi, sgravi, ancora sgravi…
Nella contestatissima legge di Bilancio ci si sarebbe aspettati, a fronte di numerosi provvedimenti di natura assistenzialista, un disegno volto a rilanciare realmente il paese, un investimento serio in Ricerca ed Istruzione. Un aiuto per proiettare il’Italia in un futuro Europeo ed Internazionale, che la tenga al passo con i tempi, che le consenta anche di costruire la realtà che vive, anziché continuare a subirla in modo passivo.
E invece no.
L’unica idea per combattere la “fuga dei cervelli” dell’attuale governo è l’introduzione degli ennesimi sgravi fiscali per chi decide di assumere un laureato o un dottore di ricerca a tempo determinato. Lo chiamano “Bonus Eccellenze” ed ha lo scopo di favorire l’assunzione di laureati in corso, con il massimo dei voti e meno di 30 anni, e dottori di ricerca entro i 34 anni, a patto che abbiano conseguito il titolo tra gennaio 2018 e giugno 2019. Per carità, è sicuramente qualcosa, tralasciando l’inadeguatezza del fondo stanziato che consentirebbe l’assunzione di 6000 persone a fronte delle 60000 che potrebbero potenzialmente beneficiarne. C’è anche chi ha visto in questo provvedimento un riconoscimento del valore dell’alta formazione (cosa che, considerata l’idea del M5S e non solo di abolire il valore legale del titolo di studio, mi pare improbabile). Ciò nonostante, la sensazione è quella di trovarsi dinanzi all’ennesimo maldestro tentativo di far incontrare, forzatamente, la necessità di un’azienda di assumere con quella di una categoria di essere assunta.
Di fatto, l’azienda che decide di non assumere laureati o dottori di ricerca, lo fa per diverse ragioni. Di certo, se percepisse la necessità di avere una figura di questo tipo in organico, non aspetterebbe un bonus. È, forse, più ragionevole pensare che non ritenga l’innovazione ed il progresso tecnologico come qualcosa di fondamentale per il proprio introito. La piccola e media impresa italiana preferisce una catena produttiva di efficacia consolidata che però, purtroppo, non può offrirgli garanzie dinanzi ad una società e ad un mercato che sono, invece, in continua evoluzione.
Ma il problema della fuga delle eccellenze è innanzitutto culturale. In Italia, non c’è posto per persone altamente qualificate anche perché, seguendo la forma mentis nazionale, con la “cultura non ci si fa un panino” (semicitazione di un infelice Tremonti). Il cervellone, le competenze, l’innovazione, la ricerca sono tutti concetti incompresi, quando non sottovalutati. Lo dimostrano i progressivi tagli al comparto istruzione e ricerca degli ultimi anni.

Anche questa volta, per finanziare le misure in gran parte assistenzialiste dell’ultima manovra, sono previsti tagli ai fondi per i Ministeri per ben 589,2 milioni. Sebbene la maggior parte di essi, quasi 470 milioni, siano a carico del Ministero dell’Economia, il comparto Istruzione e Ricerca dovrà contribuire alla “Manovra del popolo” con 29 milioni che, su una coperta già corta, fanno la differenza.
Un esempio? L’attuale condizione finanziaria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che dovrebbe rappresentare uno dei principali Enti Pubblici di Ricerca nel nostro paese. Da anni, il Fondo di Finanziamento Ordinario per l’Ente (FOE) è impiegato per oltre il 90% nel pagamento degli stipendi ai dipendenti, un problema comune anche all’Università. Va da sé che, per il sostegno delle spese ordinarie dell’ente, può essere utilizzato solo il 10% residuo (e insufficiente). La comunità scientifica, rimboccandosi le maniche, ha fatto appello alle proprie capacità di problem solving per far fronte alla situazione ed è arrivata a contribuire alle spese con i fondi destinati ai progetti di ricerca che ciascuna unità riesce a procurarsi. Tradotto, per ottenere fondi di ricerca, un ricercatore è tenuto a partecipare ad uno o più bandi, spesso non afferenti al MIUR, quanto piuttosto a Onlus e Fondazioni private; qualora il ricercatore vinca il finanziamento (e non è facile), l’ente ospitante tratterrà una percentuale non trascurabile dello stesso per le spese dell’Istituto.
Attualmente, a fronte dell’ultimo FOE, i soldi spesi dall’Istituto per pagare i propri dipendenti sono pari al 98,7% dello stanziamento previsto. In questa situazione, neanche le trattenute sui fondi di ricerca sono sufficienti a far fronte alle spese ordinarie dell’Istituto che, a questo punto, rischia il collasso, come riportato da Vito Mocella, rappresentante del personale nel consiglio di amministrazione del Cnr . Appartenendo il CNR alla categoria di enti ed istituzioni di ricerca vigilati dal Ministero ( il MIUR), è difficile credere che, al momento dello stanziamento, non si fosse al corrente della condizione dell’Istituto, del numero di dipendenti, delle necessità economiche dello stesso.
È vero, il Ministro Bussetti ha firmato il decreto per l’assegnazione “un’extra”, già previsto dal precedente Governo con la Legge Madia, che sarà destinato alla stabilizzazione di circa mille ricercatori precari in vari enti di ricerca (non solo nel CNR dunque). Ma per quanto sia sacrosanto assicurare ai ricercatori un contratto di lavoro con le dovute tutele, lo è altrettanto fornire loro spazi ed infrastrutture adeguati alle attività da svolgere (per non parlare di un auspicabile contributo pubblico alle attività di ricerca, che è ormai più un miraggio che altro).
Ancora una volta, la ricerca è ridotta ad un problema occupazionale più che di crescita e di progresso. Del resto a muovere i voti sono le persone, non i brevetti o le scoperte scientifiche che, invece, muovono l’economia. In modo non immediato, non sempre direttamente osservabile, ma certamente in modo reale. Se si continua a percepire come emergenza immediata solo quella occupazionale, rinunciando a riforme strutturali che rendano il sistema ricerca più efficiente, funzionale ed attrattivo, non sarà possibile arrestare l’emorragia di competenze che affligge il paese. Non solo, l’Italia rimarrà fuori dal contesto di scambio di conoscenze e di eccellenze che ha fatto e fa crescere tutti i paesi europei, contribuendo a farli sentire parte parte integrante dell’Europa.
Se lo scopo di un qualsiasi governo, qualunque sia lo schieramento politico di appartenenza, deve e vuole essere quello di trainare l’Italia fuori dal pantano in cui si trova, è necessario iniziare a guardare agli altri paesi non solo per giudicarne gli errori, ma anche per capire quelli nostrani. Chi lascia l’Italia lo fa per andare altrove e quell'”altrove” ha qualcosa che il nostro paese non è in grado di dare: non banalmente uno stipendio, ma un contesto internazionale, competitivo, innovativo.