Faticare come negri bestemmiando come turchi

Ma anche: avari come ebrei, freddi come inglesi, infidi come arabi e, naturalmente, mafiosi come italiani. I cliché nazionali sono innumerevoli e mutano in generale da popolo a popolo. Anche se alcuni sembrano sovranazionali, come gli stereotipi sugli ebrei. Poi ci sono quelli sui disabili (“Non fare quella faccia da mongoloide!”), sulle donne (innumerevoli, ve li risparmio), sugli omosessuali, i carabinieri…

Nell’epoca del “politicamente corretto”, i più attenti all’uso del linguaggio cercano di evitare, per esempio, di dire “non fare il rabbino” all’amico che non paga il caffè, o “ce l’ha piccolo come un cinese” a quello che si prende in giro, in gruppi testosteronici, per una presunta mancanza virile. Ma non solo è difficile tenere sempre la guardia alzata verso l’oceano di frasi fatte da parte di chi vuole essere corretto; non solo questa attenzione implica molteplici annessi in parte oscuri (se non devo insultare gli ebrei, come devo regolarmi con Israele, con la religione ebraica, con la politica sionista…?); soprattutto, questa moderna paranoia che chiamiamo ‘politicamente corretto’ non agita l’anima di moltitudini.

Schermata 2018-11-09 alle 10.02.11Per esempio non ha agitato l’anima di tale Valentina Vignali, “influencer” (ormai è un titolo, come dottore, cavaliere, monsignore…), che ha pubblicato un infelice post su Instagram per perorare la nobile causa del suo buon appetito: “Non faccio la dieta Auschwitz”. Apriti cielo, la comunità ebraica insorge e i giornali ne hanno parlato. Come si permette? Quei poveretti morivano di fame per la cattiveria nazista, mica perché sciocchezzavano su Instagram!

Questa notiziolina mi ha colpito per due buone ragioni.

Innanzitutto mostra a cosa si è ridotto il linguaggio (un tema al quale siamo da sempre molto attenti). Il famoso “pensare male perché si parla male” di Nanni Moretti è diventato un generale “pensare qualunque cosa perché si apre la bocca e le si dà fiato”. Oggi tutti dicono qualunque cosa, a cominciare dai politici (ci torno fra breve) senza produrre particolari conseguenze. Il valore delle parole si è assottigliato, e la loro funzione principale, nella società di massa omologata, è di produrre rumore di fondo. Il continuo zzz… dei miliardi di parole pronunciate quotidianamente, consumate, come la musica pop di scarsa qualità, in un continuo fastidioso e assieme rassicurante, hanno sostituito il valore della parola: “Ti do la mia parola” non significa più nulla; “La parola all’esperto” fa quasi ridere; “Misurare le parole” lascia sbigottiti; “Testimoni” (del tempo, della memoria, delle tragedie, e quindi testimoni parlanti) è una categoria affogata da contro-testimoni, anti-testimoni, negazionismi assortiti.

La parola è diventata un melting pot insignificante (in senso proprio, semantico) dove trovano facile spazio le menzogne, le allusioni, le distorsioni sistemiche e infine i falsi sistematici e voluti, o fake news. La parola oggi non indica ma etichetta; non spiega ma dirige; non distingue ma omologa. E anziché cercare di recuperare il suo valore, ci si aggrappa, in certi circoli peraltro ristretti, al “politicamente corretto”, per cui non dico più negro ma ‘nero’, e continuo a non spiegare, a non distinguere, a produrre rumore di fondo; non dico più handicappato ma ‘disabile’, e continuo a disprezzarli come prima.

È interessantissimo, a questo punto, ricostruire l’uso della parola in politica, o meglio la parola nella comunicazione politica. Come qualcuno sta notando (Violante, citato dal Foglio):

Questo è il primo governo della comunicazione, in senso letterale, cioè che vive immerso nella comunicazione secondo la seguente logica: l’annuncio equivale al fatto.

L’articolo, a firma Salvatore Merlo, prosegue con un’analisi interessante di cui vi fornisco un estratto:

Le parole, diceva Prezzolini, sono fra i nostri nemici; ci tradiscono come ambasciatori, e ci ingannano come interpreti. E a ben guardare, quel che importa oggi è soprattutto la forza, l’energia, l’enfasi, come nella pubblicità: come il doppio brodo, il doppio sugo, il doppio concentrato. Quindi #bastaimpuniti, #spazzacorrotti, non parole ma talvolta parole d’ordine, rafforzativi, se non addirittura truffe di significato, frodi sintattiche, espressioni a doppio fondo, insomma titoli di leggi che non corrispondono ai contenuti dei provvedimenti, ma sono buoni per Instagram, nella misura di una politica che vive di marketing e di istantanee, di selfie, appunto. La più evoluta tecnologia del far credere. E allora ecco la flat tax che non è una flat tax, e non è nemmeno “il più grande taglio delle tasse della storia italiana”, come disse Matteo Salvini – a proposito di iperboli – ma è più modestamente l’estensione del regime forfetario dei minimi. Fino al condono che diventa “pace fiscale”, un po’ come nel film “Amici miei”, quando il tic della contraffazione semantica viene preso in giro così: “Non si dice ‘impotente’ ma ‘non trombante’”.
Ed è l’inghippo di un linguaggio che non è innocente, perché con la sua potenza è servito e serve a contrabbandare una cosa per un’altra. Come il banalissimo sussidio di disoccupazione che diventa l’altisonante “reddito di cittadinanza”, o il provvedimento sui “rimborsi ai truffati dalle banche” che è in realtà un salvacondotto per quelle banche che avrebbero rischiato azioni legali e onerosi risarcimenti. C’è poi ovviamente l’“azzeramento della legge Fornero”, la “quota cento”, che però vale soltanto per un anno, e della legge Fornero in realtà conserva l’impianto, e infatti chi vorrà andare in pensione prima prenderà un assegno più basso di quello che avrebbe preso aspettando il compimento dei sessantasette anni.

Ecco allora che abbiamo la seconda importante considerazione: se da un lato le parole sono diventate rumore di fondo nella vastità di zzz, pure quel rumore deve essere indirizzato. Zzz reddito di cittadinanza… Zzz pace fiscale… Zzz governo del cambiamento… E se il rumore di fondo (zzz) è una costante, le parole d’ordine sono ripetute migliaia di volte, sottolineate, riprese da blog e stampa e, per qualche istante, diventano più chiare e distinguibili. Anch’esse in gran parte private di sostanziale significato se non quello dell’involucro: ‘reddito di cittadinanza’ = cosa buona per i poveri; ‘pace fiscale’ = cosa giusta per i redditieri… Pochi noiosi specialisti conoscono la sostanza, leggono le proposte, confrontano i numeri, argomentano forze e debolezze… Costoro hanno perso l’aura di credibilità perché usano parole che significano, ma che si perdono immediatamente nel rumore di fondo dove il loro zzz equivale al mio, al tuo, a quello del barista di sotto.

E’ la continua ripetizione, specie da parte di testimonial, di leader di consorterie ai quali la massa si affida, che rende gli slogan non già più precisi o significanti, ma semplicemente più rimarcabili, memorizzabili, acquisibili come quello che sono: mere parole d’ordine, necessarie nella cacofonia disorientante per trovare quella strada una volta indicata da argomentazioni e parole significanti.

E noi, che usiamo parole, ci parliamo l’un l’altro disperando.

nonomologatevi