I corni di Corallo

Come accade periodicamente alle assemblee del PD, un giovane s’è fatto notare con un discorso provocatorio e “rottamatore” nei confronti della dirigenza del partito, presente, passata e futura (“stiamo per eleggere il prossimo ex-segretario del PD”, ha detto tra l’altro). Dario Corallo, questo è il nome del militante che all’Assemblea Nazionale del PD ha così annunciato la propria candidatura alle primarie per l’elezione del segretario, si inserisce insomma in una tradizione di successo, quella dei “giovani ribelli” che si schierano contro la dirigenza del PD in nome della necessità di rifondarla, la cui più fortunata esponente è forse Debora Serracchiani, che oggi ovviamente fa parte appunto della dirigenza del partito.

 Sarebbe però forse ingeneroso e certamente miope liquidare la candidatura di Corallo come uno dei tanti modi possibili di dare la scalata a un po’ di potere da parte di qualcuno che non ha “santi in paradiso” nelle diverse correnti che nel suo discorso Corallo stesso ha stigmatizzato come pure cordate lottizzatorie. Alcuni dei problemi che Corallo pone sono reali, in particolare quelli che, anziché riferirsi stucchevolmente alle dinamiche interne di un partito che a forza di competizione interna sembra aver perso la capacità di occuparsi della competizione esterna, riguardano la vita reale dei cittadini e le scelte di fondo di un partito che voglia ancora collocarsi “a sinistra”. Tra i temi sollevati da Corallo (in generale in modo che non mi entusiasma, e che chiamerei demagogico se non fosse un termine ormai desueto), uno mi sembra particolarmente interessante e in linea con gli argomenti di cui su Hic Rhodus ci occupiamo ormai da qualche anno. 
Si tratta del tema dell’equità, anche se Corallo non l’ha chiamato così, preferendo sottolineare che il PD, secondo lui, negli ultimi anni s’è occupato dell’1% di “quelli che ce la fanno” anziché del 99% che include ovviamente tutti coloro di cui la sinistra deve davvero preoccuparsi. Si è trattato di un attacco diretto ai principi di meritocrazia (?) a cui il PD si sarebbe allineato negli anni recenti, abbandonando a se stesse intere generazioni di disoccupati, precari, lavoratori a basso reddito, nelle quali i pochi eccellenti che ottengono posizioni di prestigio sono spesso e volentieri dotati di considerevoli vantaggi di partenza. Non si tratta di una diagnosi peregrina: la crescita delle disuguaglianze, il rischio di povertà alto per chi lavora poco e saltuariamente ma esteso anche a chi lavora, le ingiustizie transgenerazionali a danno dei giovani, sono tutti segnali allarmanti di un fenomeno di polarizzazione e di divaricazione sociale di cui abbiamo scritto molte volte e che ha tra i suoi effetti l’erosione della solidarietà civile (o, detto più chiaramente, del senso di “sentirsi in fondo tutti sulla stessa barca”).

Ora, è sintomatico che la reazione di Corallo a questo problema reale sia istintivamente “regressiva”. Il problema è il capitalismo, i mercati avidi di guadagno, un modello sbagliato di Europa, e, soprattutto, quella sfacciata meritocrazia che mortifica chi non ha mai avuto l’opportunità di uscire da una condizione di marginalità. Un pastrocchio in cui si confonde il merito con le rendite di posizione, la competitività con l’abuso, la legittima aspirazione a guadagnare con il furto; e un pastrocchio tanto più grave in quanto non è che la rimasticatura di una linea ideologica che, molto più della classe dirigente del PD, ha provocato danni devastanti all’Italia, sia materiali che culturali: l’ideologia per cui equità ed egualitarismo sarebbero la stessa cosa

Ecco, il problema è anche se non soprattutto questo: che alla giusta domanda di equità destra e sinistra abbiano dato da sempre due risposte entrambe apparentemente valide ed entrambe false. La destra ha da sempre “tradotto” equità con parità di opportunità (Equality of Opportunity, in inglese): il gioco è equo se tutti abbiamo la stessa possibilità di giocare la nostra partita ad armi pari, e alla fine chi è più bravo vince. La sinistra tradizionale, invece, traduce appunto equità con egualitarismo (Equality of Outcome, in inglese), ossia con l’idea che in una società equa la condizione di tutti dovrebbe essere la stessa indipendentemente dalle loro capacità e dai loro meriti. Della fragilità e inattualità del senso di quest’ultima interpretazione ha scritto bene qui Claudio Bezzi. La verità, secondo ovviamente la mia personale interpretazione di equità, è che il “dilemma cornuto” tra meritocrazia ed egualitarismo presenta una falsa alternativa, e richiede una terza risposta. Le uguali opportunità non sono una garanzia sufficiente di equità sostanziale: una società in cui magari tutti hanno la stessa possibilità di diventare ricchissimi ma chi non ci riesce vive in miseria non è una società equa, punto e basta. D’altra parte, una società in cui si rifiuta di riconoscere e ricompensare il merito e le differenze di capacità è a sua volta una società iniqua. Peggio: simili società, proprio perché inique, creano distorsioni e tensioni tali da provocare danni e declino a se stesse: una società che rifiuta ideologicamente il merito (il che non significa, nella realtà, che poi sia davvero egualitaria) distrugge l’eccellenza e la qualità; una società che rifiuta ideologicamente un principio di solidarietà (il che non significa, nella realtà, che poi sia davvero meritocratica) lacera il tessuto sociale e crea una guerra di tutti contro tutti. Ed è davvero triste prendere atto che in Italia abbiamo entrambi questi problemi: abbiamo contemporaneamente culto per il privilegio e disprezzo per l’eccellenza.

Quindi, se è giusto e necessario richiamare la sinistra, e il PD in particolare, a non dimenticare il problema dell’equità, è tristissimo volerlo affrontare con gli strumenti del sindacalismo anni Settanta. Se è di sinistra esigere che nessuno che lavori onestamente debba essere povero (e noi qui lo scriviamo da anni, fin da uno dei primissimi post pubblicati su Hic Rhodus), deve essere altrettanto di sinistra riconoscere e perseguire il valore del lavoro ben fatto, del merito nello studio, della qualità dei prodotti, dell’eccellenza dei processi. Incentivare l’eccellenza e utilizzare parte dei frutti che l’eccellenza assicura per sostenere chi non riesce a farcela da solo non sono proposte antitetiche: conciliarle deve costituire la sfida centrale del programma di chi vuole che la nostra società resti una e non si frammenti in isole che si muovono a diversa velocità, con servizi e risorse diversissimi e non comunicanti. Se mi è permesso, in una parola, di chi si considera di sinistra.

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