Qualche settimana fa, sulla rivista The Verge è stato pubblicato un articolo su cui penso sia giusto attirare l’attenzione. Il titolo dell’articolo è The Trauma Floor, e si tratta di un’inchiesta per certi versi agghiacciante sulle condizioni di lavoro delle migliaia di persone che lavorano come “moderatori” per Facebook.
Facciamo una premessa, attingendo ad alcune cifre riportate nello stesso articolo: in tutto il mondo, circa 15.000 persone svolgono l’incarico di moderatore per Facebook. Di queste, solo una piccola minoranza è effettivamente dipendente di Facebook; in parte, questo accade perché è necessario che tra i moderatori ci siano persone di diversi paesi, che parlano diverse lingue, e in generale che siano capaci di giudicare contenuti controversi conoscendo il contesto culturale dell’utente che li pubblica. In buona misura, però, il fatto che Facebook ricorra a fornitori esterni per questo compito così delicato (e a cui applica, come l’articolo evidenzia, un’attenzione meticolosa e degli standard altissimi) è principalmente dovuto a ragioni economiche: un dipendente Facebook guadagna tipicamente moltissimo (la media è 240.000 dollari l’anno!), un moderatore di una società esterna guadagna, poniamo, 29.000 dollari l’anno, come i dipendenti della Cognizant di Phoenix, in Arizona.
Ma il problema è solo marginalmente economico: penso che nessuno si aspetti che un moderatore debba guadagnare cifre folli. Piuttosto, la cosa triste ed allarmante è che gli effetti psicologici dell’attività svolta dai moderatori, aggravati dai ritmi di lavoro frenetici, sono pesantissimi. In un certo senso, non è una metafora fuori luogo avvicinare questi lavoratori a soldati di prima linea: ogni giorno sono esposti a traumi emotivi ripetuti che, se non includono il rischio di perdere la vita, possono però comprendere il dover esaminare video e immagini di violenza, stupri, addirittura autentici omicidi. Secondo The Verge, nonostante l’assistenza psicologica che la Cognizant offre ai dipendenti molti di loro soffrono di disturbo post-traumatico da stress, una patologia tipica dei militari in guerra, presentano attacchi di panico, o finiscono per acquisire credenze complottiste.
Mentre l’inchiesta, che vi invito caldamente a leggere, si concentra prevalentemente sulle pesanti condizioni di lavoro dei moderatori, io vorrei invece sottolineare una cosa che diamo ormai quasi per scontata: l’enorme danno economico, umano e sociale causato da chi diffonde (o tenta di diffondere) sui Social violenza, menzogne, odio. Come dicevo, ormai consideriamo quasi scontata l’esistenza di questi che, molto semplicemente, chiamerei criminali digitali, e siamo rassegnati all’inevitabile fiumana di immondizia che quotidianamente riversano sulle nostre scrivanie virtuali, solo in parte, e nei suoi aspetti più estremi, arginata da questi moderatori e da simili contromisure, e certo anche gli interventi di Facebook o Twitter per bloccare gli account più virulenti sono solo palliativi. D’altronde, nonostante i ricorrenti tentativi dei legislatori di imbrigliare Internet, la legge ordinaria è strutturalmente inadatta a contrastare questi fenomeni, dalle fake news alla diffusione di contenuti violenti, diffamatori o discriminatori: ci vuole troppo tempo, troppe energie, e la sproporzione tra le risorse della Giustizia ordinaria e la quantità di materiale immesso in Rete dai criminali digitali è tale da rendere praticamente non perseguibili queste malefatte, se non in parte le più gravi come la pedofilia online. D’altronde, solo emanare leggi ad hoc richiederebbe tanto tempo e tanti dibattiti da renderle obsolete prima di essere approvate.
Non c’è quindi nulla da fare? Su questo si può nutrire qualche dubbio. A mio avviso, l’unica via per combattere questa guerra senza doverle immolare, oltre che fiumi di denaro, la salute psichica non solo dei moderatori, ma di tutti gli utenti di Internet (perché è chiaro che la linea tra i contenuti che vengono intercettati e quelli che “passano” è sottile, e possiamo essere certi che ce ne sono molti di criminali anche tra quelli che superano la “prima linea” presidiata dai moderatori), è trasferire la rappresaglia contro i criminali digitali sul piano digitale. Sappiamo tutti bene che Facebook e Twitter sono pieni di account fasulli, ed è ovvio che i Social, in generale, abbiano interesse a consentire un sostanziale anonimato agli utenti, perché questo di fatto aumenta il loro business; secondo me, è inutile e controproducente voler imporre a tutti di comparire col proprio nome e cognome. Quello che servirebbe, e qui mi riallaccio a diversi vecchi post di Hic Rhodus sulla Digital Citizenship, sarebbe che i player digitali come Facebook, Google, Amazon e pochi altri grandissimi imponessero l’identificazione forte degli utenti, con documento d’identità o equivalente (come l’italiano SPID), e che una volta certa la loro identità consentissero poi loro di utilizzare quanti account vogliano e con quali nomi pubblici vogliano. Probabilmente questa identificazione forte potrebbe essere facilitata da una tecnologia come la blockchain, ma sorvoliamo un attimo su questo: immaginiamo insomma che a ciascuno di noi sia associata un’identità digitale unica e riconosciuta da un consorzio dei titolari delle grandi piattaforme Social e web (già solo mettere insieme Facebook/Whatsapp, Microsoft, Apple, Twitter e Amazon sarebbe molto). A quest’identità corrisponderebbe una vera e propria Digital Citizenship, con diritti e doveri, e con un sistema di repressione dei comportamenti “criminali” che non avrebbe bisogno di tribunali, ma si baserebbe esclusivamente sulle policy di questi grandi fornitori di servizi digitali e permetterebbe azioni immediate. Se Filippo Ottonieri, o chiunque usi per il suo account il nome di Filippo Ottonieri, pubblicasse un contenuto “criminale”, potrebbe essere punito non con una denuncia alla legge ordinaria o con la chiusura dell’account, ma con il ban temporaneo o definitivo della sua identità digitale da tutte le piattaforme online aderenti al consorzio che dicevo. All’estremo, ai peggiori trasgressori potrebbe essere comminata una vera e propria pena di morte digitale, l’impossibilità per sempre di aprire un account su qualsiasi Social. Questa sì, una volta imposta l’identificazione forte, sarebbe una sanzione efficace, rapida e tale da costituire un deterrente: nulla vieterebbe a “Filippo Ottonieri” di avere un account di posta elettronica (magari erogato da un provider di “servizi di cittadinanza”) o di interagire online con la Pubblica Amministrazione, comprare un biglietto aereo o leggere un quotidiano digitale; ma sarebbe limitato al “Web 1.0” e gli sarebbe impedito di pubblicare contenuti.
Questa è la mia personale opinione, e capisco che molti non la condivideranno, trovandola irrealistica o, all’estremo opposto, illiberale. Ma insisto a credere che, finché non avremo creato una forma di vera e propria cittadinanza digitale, con servizi minimi garantiti ma anche con diritti e doveri digitali, resteremo in una condizione “grigia” con amplissimi spazi per i comportamenti devianti o apertamente criminali, pochissimi strumenti per combatterli ed enormi costi collettivi da pagare.
L’immagine di apertura è in realtà il logo della band musicale britannica Digital Criminals.