Il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti, sono attori; hanno proprie uscite e proprie entrate; nella vita un uomo interpreta più parti, ché gli atti sono le sette età. (William Shakespeare, Come vi piace, II.VII)
Il “caso Lucci” sarebbe che un tal Enrico Lucci, conduttore dell’ennesimo talk show chiamato Realiti (con la “i” finale) ha invitato a studio un cantante neomelodico siciliano (che canta in napoletano) che le ha sparate ignobilmente grosse su Falcone e Borsellino. Il Lucci sarebbe intervenuto, sì, per biasimarlo, ma ne è scoppiata l’ennesima tempesta in un bicchiere d’acqua.
Poiché scovo le notizie più strampalate quali esempi per parlare di questioni più generali che mi stanno a cuore (del “caso Lucci” di per sé non mi importa un fico secco), farò qualche riflessione molto pertinente in questo periodo.
Premesse d’obbligo:
- non ho visto e non intendo vedere Realiti; questi programmi sono porcherie più o meno furbescamente costruite per confondere gli spettatori; il mio post definitivo sull’argomento lo trovate QUI e non devo aggiungere nulla;
- il format e la sua conduzione sono di intera responsabilità di Lucci: la scelta di mettere al centro della trasmissione un “pischello ignorante” (definizione del Lucci) e farlo straparlare di questioni più grosse di lui, ben sapendo chi era il tipo e quali pensieri avesse già espresso in passato, sono interamente di sua travolgente e inemendabile responsabilità, e poco importa se poi il conduttore è intervenuto (e ci mancava solo che non l’avesse fatto!);
- poiché le parole mentono, uccidono, imbrogliano, seducono, asservano, imprigionano, feriscono, inducono… (oltre a liberare, guidare, insegnare, guarire e il resto), non c’è spazio alcuno per sottili distinguo, complesse spiegazioni e articolati ragionamenti. Per me Lucci potrebbe andare ad aspettare la pensione incartando il pesce ai mercati generali (Nomen omen).
E adesso la pars construens. La vita è un teatro, e non perché l’ha detto il Vate (ma anche Platone, Corneille, Montaigne e una quantità d’altri, fino ai sociologi che ne hanno fatto, grazie a Goffman, un importante campo di studi) ma perché, fermandosi a riflettere sulla nostra normalissima vita quotidiana, ne abbiamo molteplici prove. Ci comportiamo “in un certo modo” in famiglia; poi arriva improvvisamente l’acida vicina che non possiamo soffrire e cambiamo registro, indossiamo un’altra maschera, ci atteggiamo in altro modo; corriamo poi alla funesta riunione scolastica dove già sappiamo che gli insegnanti hanno da ridire su nostro figlio e, letteralmente, cambiamo maschera, registro, copione (un canovaccio, in realtà). Poi, stremati, andiamo a farci l’aperitivo con gli amici di sempre: nuova maschera, nuovo registro e canovaccio.
Al lavoro le quinte, i ruoli in scena, e la parte che interpretiamo è molto ma molto differente dalle quinte, ruoli, canovaccio della discoteca, del tribunale, dell’alcova… Ci comportiamo in un modo col capufficio, in un altro col passeggero casualmente incontrato in treno, in un altro ancora col cameriere frettoloso…
Fin qui non ci sarebbe niente di nuovo (per lo meno per i lettori di HR, visto che di queste cose ne ho scritto spesso) se non introducessimo il tema della consapevolezza degli attori di star recitando in un palcoscenico.
Moltissime persone, ahiloro, non se ne rendono conto. Il non rendersi conto significa (qui sarò molto tecnico, scusate) che la la loro sintassi viene semplicemente utilizzata a prescindere dallo scenario e dal canovaccio. Hanno un vocabolario (solitamente limitato, ma non necessariamente) ma non comprendono la connotazione sintattica, la generazione di senso, la semantica. E la pragmatica. Sono le persone “fuori posto”, i gaffeur/gaffeuse, quell* che straparlano, fanno semmai una figuraccia e non s’accorgono, e se glie lo fate notare vi guardano stupiti. Semmai sono considerat* dei/delle “tipi/tipe”, un po’ stramb* (viro sulla declinazione maschile, scusate, mi sono stancato degli asterischi).
Se sono persone di una certa cultura e intelligenza, diversamente dai precedenti, pensano che la loro specifica provincia di significato (Schütz) sia una ragion d’essere nobile e ben meditata e non necessitata al piegarsi dei cambi di scena. Persone, in sostanza, con un Ego molto sviluppato (che va benissimo, sia chiaro, io sono un noto esempio di Ego debordante) ma rigido, poco flessibile, poco disponibile all’adattamento ai diversi contesti e ruoli. In questo caso li definiamo “con la schiena diritta”, rigorosi, molto coerenti etc.
La prossima figura mi aiuta a spiegare la questione.

La parte in alto a sinistra mostra l’illusione della medesima semantica, e l’uso prevalente della sintassi come omologa nelle diverse situazioni e con diversi interlocutori. Quella in basso a destra mostra (con eccesso di schematismi) una realtà in cui le medesime parole si dispongono, dal punto di vista semantico, su “spazi” differenti, non necessariamente coincidenti. (Abbiate pazienza per la grossolanità della rappresentazione grafica). Gli attori sociali che si muovono (non importa il grado di consapevolezza, non necessariamente con l’estrema rigidità della figura) nello scenario alto, rischiano di restare prigionieri della loro sintassi ovvero (spero che sia chiaro) da una specifica e immutabile rappresentazione del mondo; da valori non negoziabili; da autorappresentazioni senza grande adattabilità. Il mondo (tutti i mondi possibili, quelli esperiti, quelli conosciuti per sentito dire, quelli immaginati) è oggetto di una interpretazione univoca, basata su un linguaggio immutabile. Chi padroneggia lo scenario in basso, invece, si sa “muovere” fra i mondi, e quindi meglio li comprende, sa adattarsi, essere più empatico e, in conclusione, comprende meglio gli altri e riesce a farsi meglio comprendere. I primi sono ottimi attori del loro unico canovaccio: passano la vita a recitare Amleto e lo fanno davvero bene, ma non chiedete loro di rappresentare Edipo a Colono! I secondi se la cavano più o meno benino in molti testi: fanno un Amleto accettabile, un Edipo a Colono apprezzabile, un Natale a casa Cupiello passabile. Se gli chiedete di riempire un buco in Vita di Galileo, probabilmente diranno di sì e se la caveranno senza ignominia, anche se forse non brilleranno.
Il “pischello” di Realiti è un tipico caso di primo scenario, aggravato dall’ignoranza e da molti fattori ambientali, mentre il troppo furbo Lucci è chiaramente un rappresentante, inglorioso, del secondo.
Alcune considerazioni conclusive:
- nessuno esce dal teatro/dai teatri; anche l’eremitaggio è una particolare forma teatrale;
- si impara a recitare imparando a parlare, a camminare, a relazionarsi;
- il linguaggio è il teatro;
- naturalmente la cultura, lo studio, le esperienze, la lettura di buoni libri e viaggiare insegnano a passare da una rappresentazione all’altra con più capacità, e quindi anche a relazionarsi meglio, a manipolare il prossimo ed evitare di essere manipolati ma, come scritto precedentemente, le caratteristiche personologiche giocano un loro ruolo, e possiamo osservare persone di scarsa cultura che recitano bene su più scene, e persone acculturate che si possono trovare in qualche difficoltà, semmai in determinate parti e con determinati canovacci;
- ciò detto è evidente che i due scenari descritti nella figura sono estremizzazioni didattiche; tutti ci muoviamo nello spazio intermedio, chi più verso uno scenario chi più verso l’altro;
- poiché la chiave è comunque linguistica, il wormhole per passare volontariamente da una scena all’altra, da un personaggio all’altro, da un registro recitativo all’altro è il linguaggio. Essendo il linguaggio il motore della trasformazione sociale, una particolare sensibilità semantica e pragmatica può costruire, oltre a un novello Laurence Olivier, un grande leader politico, cosiccome la mancanza di tale sensibilità forgerà la massa di seguaci del primo imbonitore di passaggio.
- Poi, si potrebbe giocare a cambiare tutto: buttare lì una battuta dell’Amleto durante la Vita di Galileo… Chissà l’effetto che farebbe?
Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno (Bertolt Brecht).