Perdonatemi se non mi accodo a qualcuno degli improcrastinabili dibattiti che intrattengono in questi giorni il popolo di Internet (ossia, in pratica, tutti noi), ma penso sia necessario dedicare un po’ d’attenzione, la mia e quella di chi vorrà seguirmi in questo articolo, a un problema davvero vitale, quello del nostro Sistema Sanitario Nazionale.
Non aspettatevi però che io mi metta a snocciolare episodi di malasanità, o che me la prenda con questa o con quella parte politica. Per una volta, predisponiamoci a occuparci di un argomento senza cercare colpevoli (errori sì), perché la ricerca del colpevole è un eccellente espediente per non dover studiare soluzioni e lasciare serenamente che tutto vada a rotoli. Invece, le soluzioni vanno cercate, perché dall’esistenza di un buon sistema sanitario pubblico dipendono moltissime vite; e per soluzione dobbiamo intendere non una bacchetta magica che faccia sparire le difficoltà, ma un approccio pragmatico al bilanciamento tra problemi, risorse, opportunità, che preservi quello che personalmente considero il più rilevante patrimonio di questo Paese.
Già, perché, nonostante i mali che l’affliggono, il nostro SSN è una risorsa enorme, e, tra l’altro, questa sì effettivamente “di cittadinanza”. Abbiamo visto già tempo fa che la nostra sanità pubblica è considerata di buon livello rispetto agli altri paesi, ma con le luci e ombre che conosciamo, soprattutto nella disparità tra diverse aree geografiche. Il grafico qui sotto può illustrare meglio di mille parole perché la nostra sanità è un elemento di equiparazione tra classi sociali diverse:

Abbastanza chiaro, no? L’Italia è, dopo la Svezia, il paese in Europa dove la differenza di longevità tra le persone più istruite e quelle meno istruite è minore. Altro che reddito di cittadinanza, questo è il nostro principale “bene comune”.
Ebbene, questo patrimonio non è inattaccabile, e non può essere dato per scontato. Visti anche il progressivo invecchiamento della popolazione e la stagnazione dell’economia, Richiede una gestione oculata che ne assicuri la sostenibilità in termini di qualità delle prestazioni erogate e di costi.
Di questo si occupa da qualche anno la Fondazione GIMBE, un’istituzione indipendente che promuove l’applicazione di metodi evidence-based in ambito sanitario e che annualmente pubblica un interessante rapporto che abbiamo già segnalato ai nostri lettori. Facciamo quindi riferimento ad alcuni contenuti del Rapporto 2018, che invito tutti a consultare, anche se si tratta di una lettura abbastanza impegnativa.
Ebbene, anche quest’anno, e semmai con più forza, GIMBE ci avverte che il nostro SSN rischia, se non il collasso, di imboccare una spirale di progressivo e irreversibile degrado di cui sarebbero già visibili le avvisaglie. Vediamo per quali motivi, secondo loro, e proviamo a ragionarci un po’.
Secondo GIMBE, il SSN è afflitto da quattro patologie:
- Il definanziamento pubblico: nell’ultimo decennio, al SSN sarebbero stati “sottratti” circa 37 miliardi (vedremo poi cosa s’intende con questo);
- L’ampliamento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza): sulla carta, aumentano quindi notevolmente i servizi che il SSN dovrebbe erogare (e non eroga);
- Sprechi e inefficienze: questa voce non richiede spiegazioni, ma è significativo aggiungere che il Rapporto la stima pari a oltre 21 miliardi di Euro, ossia il 19% della spesa sanitaria pubblica totale;
- L’espansione incontrollata del secondo pilastro, ossia della spesa sanitaria “integrativa” intermediata da soggetti privati, come assicurazioni sanitarie: GIMBE considera questa spesa non solo come non “complementare” a quella pubblica, ma in competizione con essa, e quindi con effetti ulteriormente negativi sul SSN.
Approfondiamo qualche punto, senza ovviamente pretendere di essere esaustivi:
Il definanziamento pubblico: qui bisogna fare attenzione a cosa s’intende. Leggere Nel Rapporto che negli ultimi dieci anni sarebbero stati tagliati 37 miliardi di Euro alla Sanità potrebbe far credere che oggi la spesa sanitaria pubblica sia inferiore di 37 miliardi a quella di dieci anni fa. Nulla di più lontano dal vero, come si vede nel grafico qui sotto:

Come si vede, a un rapido aumento nel periodo 2001-2009 ha fatto poi seguito una sostanziale stabilità (in termini nominali) della spesa sanitaria pubblica. Il Rapporto, anche alla luce dei programmi economici del Governo, conclude che, dal punto di vista delle politiche di finanziamento del SSN, “per nessun Governo, compreso quello “del Cambiamento”, la sanità ha mai rappresentato una priorità politica”. A fronte della logica argomentazione che a una popolazione che invecchia e alla pretesa di espandere i servizi offerti dal SSN dovrebbe corrispondere un sostanzioso incremento della relativa spesa pubblica, personalmente mi limito a osservare che in un’economia stagnante non si può considerare “sostenibile” un sistema sanitario i cui costi debbano aumentare come nel periodo 2000-2008, in cui la spesa sanitaria pubblica è cresciuta del 58%. Spazi per ripetere questi tassi di crescita semplicemente non ci sono, e non ci saranno, checché dica la Fondazione GIMBE, anche perché se la spesa sanitaria dal 2008 è aumentata poco, il PIL invece è addirittura sceso. La mia personale conclusione è che è sicuramente necessario spendere di più, ma questo “di più” deve essere molto “meno” di quanto raccomanda GIMBE, che, come si vede qui sotto, stima per l’anno 2025 un fabbisogno di 230 miliardi complessivi, mentre l’andamento della spesa reale prevedibile sulla base delle evidenze odierne non supera i 183 miliardi annui. Come finanziare l’enorme gap? Lo stesso Rapporto prende realisticamente atto che non è pensabile che lo si possa fare stanziando nuove risorse pubbliche.

Un tema su cui il Rapporto propone conclusioni piuttosto lontane da quanto almeno personalmente avrei pensato è quello della sanità integrativa offerta da soggetti privati. La tesi fondamentale del Rapporto è che la cosiddetta sanità integrativa è sempre più in realtà una sanità sostitutiva, che anziché coadiuvare danneggia quella pubblica. Vediamo perché.
Il punto essenziale, argomenta GIMBE, è che la funzione della sanità integrativa dovrebbe essere quello di coprire quei servizi che quella pubblica non offre (ossia che non sono inclusi nei LEA), come in particolare l’odontoiatria o l’assistenza a lungo termine ai non pienamente autosufficienti. Invece, ed è qui la critica di GIMBE, molti servizi offerti da Fondi o Assicurazioni si sovrappongono sostanzialmente alle prestazioni del SSN, con due effetti negativi:
- un aumento dei costi per le finanze pubbliche, derivanti dalle agevolazioni fiscali riconosciute ai cittadini che utilizzano la sanità integrativa. Il valore di queste agevolazioni è crescente, mentre al contrario il finanziamento pubblico al SSN è stagnante;
- un aumento complessivo dei costi sanitari, perché ovviamente Fondi e Assicurazioni, in forma e misura diverse, hanno costi di gestione che si sommano a quelli necessari per la pura erogazione dei servizi.
Infine, c’è il complesso tema dei LEA. GIMBE è forse l’unico soggetto che io abbia visto adottare un criterio basato sul value for money nel ragionare sui LEA. Eppure la logica è ovvia: dato che il fattore money è quello che è, le prestazioni erogate dal SSN sono quelle che massimizzano il valore prodotto in termini di salute, evitando di porre a carico della sanità pubblica trattamenti a valore basso rispetto al loro costo, o addirittura nullo.
Naturalmente questo significa resistere alla tentazione, politicamente molto più allettante, di inserire nei LEA quante più prestazioni diverse possibili, fingendo di non sapere che poi saranno i limiti di risorse a rendere, di fatto, inesigibile il diritto dei cittadini a ottenere i servizi in tempi e con qualità adeguati. In particolare, in riferimento all’ultimo decreto sui LEA (che risale al mandato del Ministro Lorenzin), GIMBE lamenta che (cito direttamente dal Rapporto):
- ha soppresso i 3 fondamentali princìpi di evidence-based policy making del DPCM 21 novembre 2001;
- non ha previsto alcuna metodologia esplicita per l’inserimento/ esclusione delle prestazioni dai LEA;
- ha ampliato a dismisura il “paniere” delle prestazioni, indipendentemente dal loro value;
- tranne poche eccezioni, non prevede “liste negative” di prestazioni, delegando alla Commissione LEA il compito di effettuare il delisting delle prestazioni obsolete;
- non ha delineato una strategia di ricerca e sviluppo finalizzata a produrre evidenze per informare l’inclusione/esclusione delle prestazioni nei LEA.
In conclusione, sono convinto che l’allarme lanciato dall’Associazione GIMBE sia fondato e che richieda l’attenzione di tutti noi, che siamo i beneficiari del SSN. Sebbene alcune delle argomentazioni esposte nel Rapporto non collimino con le mie opinioni precedenti, l’approccio metodologico e gli obiettivi del lavoro di GIMBE sono condivisibili, e vi invito a prenderne conoscenza e a riflettervi, magari dedicando a questo tema che è letteralmente vitale per noi cittadini un po’ dell’attenzione che di solito riserviamo alle beghe quotidiane tra opposte fazioni. Salvare il SSN è necessario, o ci troveremo con una costosissima sanità di valore per pochi, e ben poco per tutti gli altri. Chiudo riportando qui sotto la grafica nella quale il Rapporto sintetizza il piano di azioni che raccomanda, che non riesco a riassumere qui per ragioni di spazio.

L’immagine di apertura è il logo creato da GIMBE per i 40 anni del SSN