Il World Health Report stilato dalla World Health Organization (quale fonte più autorevole?), ha stabilito che l’Italia, sommando i vari indicatori esaminati, è il secondo sistema sanitario al mondo, dopo la Francia. Il Regno Unito è 18°, gli svizzeri 20i, gli Stati Uniti 37i, tanto per far riferimento a paesi e sistemi sanitari a volte celebrati.
Qualcosa finalmente di cui andar fieri. Ma nel 2000, data del Rapporto. Anzi, nel 1997, anno di riferimento del medesimo. L’Italia sanitaria proveniva da un fantastico progetto di sanità pubblica universalista (con la Legge 833 del 1978 che istituiva il Sistema Sanitario Nazionale finanziato dalla fiscalità generale) poi rapidamente ridotto e ridimensionato e, specialmente, trasferito alle Regioni con atti successivi conclusisi nel 1999 (Legge 133) e con la legge costituzionale del 2001. L’anno di riferimento di questo Rapporto ha quindi a che fare con una sanità pubblica che, seppure già in corso di ridimensionamento, era ancora capace di garantire prestazioni, assistenza, prevenzione e tutela alle fasce più deboli.
Cosa è successo dopo 20 anni? Non avendo il WHO aggiornata la classifica (a causa, pare, delle eccessive controversie suscitate – fonte) dovremo accontentarci di analisi diverse.
L’americana National Academy of Sciences, nel suo Rapporto del 2013 U.S. Health in International Perspectives non commette l’errore di cercare un indice sintetico ma propone molteplici indicatori in cui l’Italia è solitamente ai primi posti e l’America fra gli ultimi (aspettativa di vita, accessibilità al sistema sanitario e altro).
Un’analisi del Guardian del 9 febbraio 2016 analizza i sistemi sanitari di 12 paesi giudicati leader nella sanità pubblica; per l’Italia si dichiara:
It is recognised by independent experts as offering affordable and high quality care, though there are regional differences in the standard of some state-run hospitals, with facilities in northern Italy being considered better than those in the south. Citizens can also buy private insurance, which some do to avoid waiting times for doctors’ visits. The national insurance scheme is offered to all European citizens, and includes full coverage – paid for by general taxes – of inpatient treatments, tests, medications, surgery, emergency care, paediatrics and access to a family doctor. According to Italy’s health ministry, the list of pharmaceuticals that are covered by national insurance is the most complete in Europe, with patients having to pay for only products that treat minor disorders.
Smettiamo qui anche perché abbiamo dubbi sui metodi adottati da queste classifiche, ma il senso finale è che, sia pure con pochi indicatori, generalmente il sistema sanitario italiano viene considerato fra i migliori al mondo.
Come abbastanza ovvio, fra gli indicatori generalmente utilizzati c’è l’aspettativa di vita. Sembra lecito affermare che una popolazione che vive molto a lungo goda di buona salute e – ceteris paribus – di un buon servizio sanitario che la presiede e tutela. Ma per essere un buon sistema pubblico anche l’analisi dei costi è importante. Facile – entro certi limiti – essere bravi spendendo molto; più difficile spendendo bene. Un’analisi di questo tipo la propone Bloomberg, sulla base di pochissimi indicatori (sostanzialmente: aspettativa di vita e costi del sistema sanitario, quindi un indice abbastanza grossolano); l’analisi indica nel 2014 l’Italia 3^ (dopo Singapore e Hong Kong, sostanzialmente delle ricche città-stato), con la Francia (seconda europea della classifica) 8^, regno Unito 10°, Svizzera 15^, Stati Uniti 45i.
Molto meglio (anche se non comparativo con realtà estere) il rapporto Osservasalute. In questi giorni se n’è parlato molto perché avrebbe attestato una diminuzione nelle aspettative di vita di alcuni punti decimali fra il 2014 e il 2015. Di per sé la notizia non ha particolare rilevanza se non diventa un trend, ma per questo dovremo aspettare i dati dei prossimi anni. La stampa non è andata più in là di questa notizia mentre varrebbe la pena leggere tutto il rapporto o almeno la sua cospicua sintesi che dice fra l’altro:
I dati analizzati nel Rapporto Osservasalute 2015, analogamente agli anni passati, evidenziano come lo stato di salute degli italiani sia complessivamente buono. Gli effetti del processo di invecchiamento continuano a manifestarsi e questo ha riflessi sul numero di malati cronici e, in generale, sui bisogni di salute che si traducono poi in domanda di assistenza. Sebbene in lieve diminuzione la percentuale di soggetti con stili di vita non salutari (abitudine al fumo, consumo di alcol e sedentarietà), emerge chiaramente la necessità di incentivare l’offerta e l’adesione ad attività di prevenzione primaria e secondaria, quali vaccinazioni e screening, e politiche socio-sanitarie ad hoc che fronteggi- no i bisogni sanitari di una popolazione sempre più “vecchia” ed affetta da più patologie contemporaneamente. Permangono negli ambiti indagati, spesso intensificandosi, le differenze tra macroaree geografiche, tra singole regioni e tra uomini e donne. Le differenti scelte programmatorie a livello regionale, l’organizzazione e gestione dei servizi sanitari basata su scenari finanziari in molti casi problematici, determinano una eterogeneità che influisce sulla qualità dell’offerta dei servizi erogati e sull’equità dell’accesso. Le regioni più in difficoltà sono ancora le regioni del Meridione e lo scenario è certamente aggravato dalle ripercussioni della crisi economica principalmente sugli stili di vita e, quindi, sulla qualità di vita dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti (p. 493).
Leggete il Rapporto per analisi dettagliate sulle varie patologie e loro distribuzione; sulla bassa prevenzione e il permanere di cattive abitudini fra i cittadini, sui sistemi regionali che, pur complessivamente in lentissimo miglioramento dell’efficienza, continuano a presentare enormi disparità fra Nord e Centro-Sud.
Il Rapporto è veramente imponente e ricco di dati ma l’impressione che si ricava è più articolata e variegata di quanto proposto dai quotidiani che hanno mantenuto un profilo basso o generico, oppure soffiato sul fuoco della strumentalizzazione (tipo “si muore di più a causa dei tagli alla sanità”). Ciò che dice il Rapporto è questo:
- sì, ci sono stati tagli fino al 2013 (nel 2014 la spesa pro capite è rimasta invariata; p. 327) ma anche una forte iniezione di liquidità da parte dello Stato per ridurre le storiche passività delle Aziende, tanto che il Rapporto, sulla dimensione economico-finanziaria, avanza un “cauto ottimismo” (p. 328) pur senza mancare di rilevare la fragilità dell’equilibrio faticosamente raggiunto;
- le disparità regionali sono enormi e difficilmente giustificabili, e credo che per tutte valga la tabelle che segue (ma nel Rapporto ci sono costanti e continui esempi):
- gli italiani sono diseducati: fumiamo ancora troppo, beviamo ancora troppo (specie i giovani con un “costante elemento di criticità”, p. 60), mangiamo male (per esempio solo il 51% della popolazione mangia regolarmente verdura, p. 62), siamo sovrappeso se non obesi (46% della popolazione, p. 68);
- calano le vaccinazioni obbligatorie portando l’Italia sotto la percentuale minima di copertura (95%) dei bambini sotto i due anni raccomandata dall’OMS (p. 83);
- calano le vaccinazioni antinfluenzali, riservate specialmente agli anziani, che sono già usualmente molto al di sotto degli standard considerati ottimali (p. 86);
- i programmi di screening preventivo di alcuni tumori (cervice uterina, mammella e colon-retto), pur essendo parte dei LEA e quindi da garantire da parte di tutto il SSN, anche se in lenta crescita negli anni arrivano a coprire solo fra il 53 e il 73% della popolazione target, a seconda delle diverse patologie monitorate (p. 89).
Il quadro complessivo, in sostanza, non consente alcuna generalizzazione del tipo “tagli alla sanità = maggiore mortalità = calo aspettative di vita”. Questo lo avevamo scritto pochi mesi fa, prima del rapporto Osservasalute, quando i media si occuparono dei famosi 54.000 morti “in più”, nel 2015, rispetto all’anno precedente. Già quella volta supponemmo, oltre a variabili di tipo statistico, la virulenza influenzale rispetto al basso tasso di vaccinazioni fra anziani; e dichiarammo che le eventuali conseguenze consolidate sulla popolazione dei tagli alla sanità non potevano manifestarsi un anno per l’altro. Il rapporto Osservasalute offre nuova materia di riflessione nella stessa direzione, e ci consente di aggiungere:
- è vero che l’Italia spende relativamente meno degli altri paesi Ocse (sostanzialmente nella media ma meno dei nostri competitori principali, Francia, Germania, etc. e molto meno degli Stati Uniti; fonte;
- è altrettanto vero che si spende male con una variabilità regionale che attesta sprechi e negligenze gravi, specie in alcune regioni del Sud (fonte) peraltro affette dal fenomeno della malasanità (fonte); troppa spesa per pessima sanità, come dire un danno al cubo;
- i cittadini non posseggono una generalizzata cultura sanitaria, ambientale, alimentare e della prevenzione e non approfittano sufficientemente delle offerte loro dedicate (screening tumorali, vaccini…);
- off the record: la sanità pubblica è eccessivamente schiava della politica e molte scelte organizzative e gestionali delle Asl sono subalterne agli interessi personali e di partito dei politici locali, generando ulteriori diseconomicità a detrimento della giusta spesa sanitaria (questo quarto punto è una considerazione personale dell’autore del post).
Tutto quanto sopra non significa che i tagli non possano inficiare la buona sanità e tanto meno il suo universalismo. Diciamo però che esiste necessariamente un limite alla spesa sostenibile in generale, e quindi della spesa sanitaria, pensionistica e così via. Esiste un limite per ragioni stranote: abbiamo un debito pubblico travolgente; risorse limitate; obblighi internazionali; chi è più virtuoso di noi può certo spendere di più, comunque con dei limiti. Il punto, e concludo, è che la sanità italiana continua a essere mediamente buona, con punte di eccellenza ma anche aree grigie che comportano l’esistenza di cittadini di serie B e questo non è tollerabile; il punto è che occorre ottimizzare la spesa e definire dei costi standard per spendere ogni euro nel modo giusto, senza sprechi, senza clientele e occasioni di corruttele; il punto è che bisogna essere lungimiranti e puntare sulla prevenzione e sull’educazione sanitaria. Ricordo infine che la recente riforma costituzionale ha cambiato il rapporto Stato-Regioni sottraendo alcune competenze a queste ultime. Gli elementi di interesse per la sanità sono almeno due: la riforma prevede che spetti allo Stato non solo la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ma anche le “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare”. Resta invariata alle Regioni la potestà legislativa in materia di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali (fonte). Anche questo può aiutare l’efficienza del nostro sistema sanitario, sempre che il referendum di Ottobre non ci faccia tornare daccapo.