Scrivere non è più una professione, e la colpa è di…

In questi giorni, ho letto con attenzione due post selezionati su Facebook da The Frontpage Post, un’interessante pagina che sceglie e ripropone i post giudicati più meritevoli di sfuggire all’inesorabile oblio che inghiotte ciò che tutti noi scriviamo sui Social. L’idea è buona e ben condotta, e ogni tanto leggo qualcuno dei contenuti suggeriti dalla pagina; come dicevo, negli ultimi giorni ne ho letti due, scritti da due giornaliste sullo stesso argomento, e cioè l’insostenibilità della condizione del “giornalista” (si capirà poi perché uso le virgolette).

Il primo post è stato scritto da Barbara D’Amico, collaboratrice del Corriere della Sera e non solo, che (per ironia della sorte, o forse no) ha scritto anche di lavoratori freelance nella rubrica La nuvola del lavoro. Ebbene, dopo anni (la D’Amico ne ha 36), di fronte all’ennesimo taglio senza preavviso ai compensi che riceveva per i suoi “pezzi” (15 Euro lordi ad articolo, una cifra onestamente imbarazzante), ha deciso di dar lei stessa un taglio e interrompere il lavoro per il Corriere. Lo scrive con sincerità quasi brutale:

Se il lavoro dei collaboratori nel giornalismo non è ritenuto economicamente sostenibile perché continuare ad avvalersene?

– Barbara D’Amico

Il suo annuncio non è rimasto senza seguito. Il sito di informazione Lettera 43 le ha dedicato un’intervista nella quale la D’Amico ha sottolineato che la sua condizione non è certo isolata, e che dopo il suo post è stata contattata da molti freelance, che l’hanno ringraziata per aver avuto il coraggio di denunciare una patologia di sistema che penalizza chi di fatto fa il giornalista ma non ne ricava un reddito dignitoso. Che il caso di Barbara D’Amico sia tipico lo dimostra il secondo post che dicevo, scritto da Sara Mauri, collaboratrice del Giornale, che racconta una vicenda personale non dissimile (la Mauri è praticamente coetanea della D’Amico), per giungere alla stessa conclusione: “Con quei numeri, la situazione non era economicamente sostenibile (grassetto mio).

La mia interpretazione di queste situazioni è semplice: i contratti che una volta erano normali oggi sono un miraggio per qualunque giovane, anzi, anche per un non più tanto giovane con alle spalle anni di “professione”. Il precariato, che in questo settore si confonde col nobile appellativo di freelance, è la regola a cui è ben difficile sfuggire, e di giornalismo freelance non si vive. Anzi, come si legge in questo vecchio articolo, il giornalismo freelance è morto di fame. E una professione in cui non si guadagna abbastanza da sopravvivere non è una professione. Può essere un hobby, un lusso, al limite un investimento per poi fare altro, ma non una professione.

E non è solo il giornalismo a non essere più una professione. Poche settimane fa, sempre tramite Facebook (eh, sì; come confesserò alla fine, io faccio parte del problema), ho scoperto un’intervista illuminante pubblicata sulla rivista culturale online Pangea. A essere intervistato era un editor di successo, che su Facebook si cela dietro lo pseudonimo di Monica Rossi, e che, senza troppi peli sulla lingua, smantella la “professione” di scrittore:

Se ti definisci scrittore vuol dire che, in concreto, quello è il tuo lavoro. Con i proventi dei tuoi libri ci paghi l’affitto, le bollette, la spesa, la macchina, le vacanze, i vestiti, la scuola per i figli? Allora si, sei uno scrittore. Se invece con i proventi dei tuoi libri ci paghi giusto una cena, una cassapanca, una borsetta, una vacanza o un motorino allora vuol dire che sei uno che fa tutt’altro e poi scrive. […] Ancora, se con i proventi dei tuoi libri ci puoi comprare giusto un’automobile ma nel contempo insegni scrittura creativa, collabori con un quotidiano, hai un blog e fai tutto ciò che è inerente all’editoria e arrivi agevolmente a fine mese, beh mi spiace, non sei comunque uno scrittore.

– “Monica Rossi” (intervista su Pangea citata)

Ecco fatto: senza troppi giri di parole, la tua professione è scrittore, o giornalista, se i soldi che spendi tutti i giorni vengono dalla vendita di libri e articoli che scrivi; altrimenti no. Semplice e vero. Ma quanti sono, secondo questo criterio, gli scrittori e i giornalisti? Pochissimi, direi; per gli scrittori, basti leggere questo articolo, che sintetizza: “In Italia gli autori che possono permettersi di vivere di soli romanzi sono una decina al massimo” (e non chiediamoci troppo di cosa vivessero Svevo, o Calvino, o altri nostri grandi narratori). Ma un’attività in cui ogni anno diecimila entusiasti provano a “entrare”, e alla fine forse uno diventa un “caso letterario” e si unisce alla decina di privilegiati di cui sopra, non è una professione, altrimenti sarebbe una professione anche giocare al SuperEnalotto. E nel caso del giornalismo le cose non vanno molto diversamente, come abbiamo visto, a parte coloro che in anni migliori sono entrati in una redazione e oggi devono difendere coi denti il posto di lavoro dalla crisi di vendite di quotidiani e riviste.

Scrivere, in Italia, non è più una professione, punto e basta. Nella migliore delle ipotesi, può essere un modo per conquistare visibilità e sfruttarla facendo i conduttori o gli opinionisti in TV e alla radio, entrando in politica, diventando influencer, blogger o Youtuber, insegnando scrittura ad altri aspiranti “non professionisti”. Ma come mai è accaduto questo, e di chi è la colpa?

Ci ho pensato su, ritornando alla fine degli anni Ottanta, prima dell’esplosione del Web. Allora io m’affacciavo in edicola quasi tutti i giorni, e in libreria almeno un paio di volte al mese, restandoci ore. Compravo un quotidiano tutti i giorni, riviste tutti i mesi, e almeno una trentina di libri l’anno: la lettura era il mio principale capitolo di spesa, al quale dedicavo direi non meno di 700-800.000 lire l’anno, senza contare i regali a parenti e amici. E oggi?
Oggi, lo confesso, spenderò forse un decimo di quella cifra. Per i quotidiani, zero assoluto, anche perché, onestamente, tolte le notizie d’agenzia ci trovo pochissimo che valga la pena di leggere; piuttosto, a seconda dell’argomento, mi rivolgo a fonti online (solo per fare un esempio, per l’economia leggo lavoce.info, che secondo me non ha niente da invidiare al Sole 24 Ore e ha meno lacciuoli), tipicamente gratuite. Per i libri, leggo meno e comunque compro ormai quasi solo e-book, che in genere costano molto meno dei libri cartacei: quest’anno ho finalmente letto Alla ricerca del tempo perduto, e l’e-book mi è costato 5,99 Euro anziché i 60 o 70 che avrei speso per un’edizione cartacea ben fatta. Peggio ancora, pubblico qui su Hic Rhodus articoli che, buoni o cattivi (io immodestamente confesso di non ritenerli peggiori di tanti che si leggono sui siti informativi professionali), sono totalmente gratuiti, senza neanche il fastidio della pubblicità, e con Claudio Bezzi abbiamo autopubblicato su Amazon alcuni libri, sempre “hicrhodusiani”, ovviamente a un prezzo simbolico.

La conclusione è inesorabile: se è vero che la scrittura non è più una professione, la colpa non è degli editori (neanche quelli a pagamento), dello spirito corporativo dei “vecchi” giornalisti, della TV che ci ha rimbambito o dei Social che ci risucchiano il tempo tra polemiche e giochini: la colpa è mia, personalmente e direttamente mia. Per fare inadeguata ammenda, offro una cena al primo scrittore o giornalista che ne faccia richiesta, a patto che non sia un professionista

Taggato con: